San Martino. Ma com’erano le fiere d’un tempo? Le ricostruiamo.

San Martino. Ma com’erano le fiere d’un tempo? Le ricostruiamo.
Fiera San Martino, collezione Macrelli

( Le Fiere santarcangiolesi d’una volta, ricostruzione da Vannoni Roberto ). Sono nell’immaginario di tutti le ‘fiere’ d’una volta. A ciascuno spetta però il proprio ricordo, del tutto privato, ma ancora vivo e talvolta tanto struggente da modificare la realtà effettuale. Vediamo, con l’apporto di qualche testimonianza orale e scritta ( in particolare: ‘Al Fìri d’Santarcanzàl’, estratto de La Piè numero marzo/aprile 1932, Tipografia La Forlivese 1932) se è possibile una sia pure ipotetica ma verosimile rievocazione di quegli eventi. Intanto, l’ambiente attorno i primi anni Trenta. Il Montefeltro, infatti, ‘con tre quattro piani digradanti di colline che si sbracciano lungo le spalliere del parecchia ricolme d’ogni opulenza fino a Rimini, Riccione, Viserba, Igea Bellaria, Cesenatico, Cervia’; quindi, proprio dirimpetto, una ‘Repubblica ( quella del Titano) che vai all’estero anche stando in casa’; poi, qua e là, altri spazi, altri centri dipinti con ‘colori policromi dai toni smorzati, di cui solo l’autunno inoltrato può gratificare’. Tutto questo, annotava un cronista, altro non era che il ‘gran pavese’ circostante e fisso ‘di quel terrazzo ( ovvero Santarcangelo) che aveva, per pedana sottostante, il tappeto dispiegato e candido della fiera’. La fiera, dunque, con un protagonista, che balzava subito agli occhi quando ci si fosse appressati al mare ondeggiante, sonoro, polveroso, d’animali che popolavano fin dalla vigilia la vastità del foro boario.

IL BEL COLOSSO NIVEO. ‘ Eccolo là – infatti- il bel colosso niveo, statuario, ieratico, ben appiombato sui quattro arti brevi e robusti; eccolo là, sempre in posizione fotografica, campione della razza bovina romagnola derivante dall’incrocio dei bovini podalici con quelli esistenti più anticamente nella Regione’. Incroci, questi, di cui andava giustamente orgoglioso il cavalier Leopoldo Tosi, con i suoi sorprendenti risultati ottenuti alla Torre Torlonia e applauditi perfino all’Expo di Parigi d’inizio secolo.
Ma scendiamo a vedere il ‘contorno’ incredibile della fiera. In un mattino di luce, tepido, com’era abituale in quelle lontane estati di San Martino. Da soli o in compagnia, discendendo dalla Contrada dei Nobili. Attenzione però a marcare il passo. Attenzione anche agli incontri, con gente di ogni ceto sociale, allora, molto normali. Un corteo d’uomini e donne, festante, sta infatti proprio davanti a noi. In testa, si riconosce l’Accademico, che non è in feluca e uniforme da Immortale, bensì in quella da latifondista ‘padronesonomè’. Trattasi, nientemeno, che di Alfredo Panzini, con tanto di ‘berretto di color vario, occhiali fissi in acciaio passatista, mezzo toscano sibilante ad un angolo delle labbra, grosso micio domestico da collo a un prussiano grigioverde cangiante attraversato da grandi alamari neri e ai piedi due coturni alfieriani’.
Alla sua destra è Teresa Franchini; alla sua sinistra, invece, Antonio Baldini, fresco di grotta, perchè giunto da Roma col treno del mattino per non perdersi la fiera. Subito dietro loro è Augusto Campana, detto lo ‘storione’, perché per lui la storia non ha alcun angolo buio. Quindi è la volta del dottor Malaguti e,in terza fila, qualche altro amico ‘commestibile’, di quelli cioè che ( allora come oggi) sembrano non avere altra ora che il mezzogiorno in punto. Ad un certo tratto della discesa, più o meno all’altezza della piazzetta della Collegiata proprio in braccia al ‘mercato di mezzo’, per noi, per gli altri, c’è da affrontare un impenetrabile muro di folla, che rende difficoltoso il procedere. Ai lati sono i ‘friggitori del pesce’ che si fanno notare ‘con alte grida invitanti’. Spicca anche una insegna, ‘fronzuolamente baccalaureata di quercia’, che deve avere sostituito ( per questa volta) la biffa del Touring: invita ad affrettarsi all’Osteria della Vite, per assaggiare la famosa Albana ‘ disgregante tutte le consorelle cesenaticensi e perfino bertinoresi’.

Nei pressi della Osteria della Vite, come del resto davanti alle tante altre mescite, hanno il loro ‘più legittimo recapito le ciambellare di Longiano, con infilate in una lunga canna le armille di pasta rese piccanti dai semi d’anici che danno buon bere’. Quassù, Augusto Campana assicura agli amici d’avere ( una volta) decifrato un papiro babilonese ‘che quando a Bacco saltava il ticchio di farsi una bella sbornia veniva quassù, in via della Vite, nella grotta d’Tugnin de Fattòr’. Discesi dalla Osteria della Vite, noi gli altri, ci si addentra nel ventre di Santarcangelo. Ovvero, nella via più centrale e caratteristica, a scalinata, lunga appena cinquanta metri e larga otto, ma tanto gremita da sembrare un padiglione da esposizione. Qui ogni spazio possibile è occupato ‘ di qualche cosetta per lo stomaco’. Si tratta infatti di due spalliere stracolme di godurie da delirio: in alto, pendenti dai ganci attaccati sugli architravi dei portici, sono grosse pacche di bove, maiale, lardo; accanto sono inoltre agnelli, capretti squartati, polleria già conciata, cacciagione ( solo da conciarsi ), vesciche di strutto, cotechini, festoni a più ondate di salsiccia. Eppoi, in un piano medio, ma a tiro di mano, s’accentrano conche di porchetta fragrante di mille odori e piccante di mille sapori; mentre sui banchi s’ergono blocchi di parmigiano con e senza lacrima, pacchi di burro, formaggi secchi e bazzotti e squacqueroni, cataste di finocchi e sedani novelli, piramidi di frutta ‘onore di Cesena. E ancora: olive, aranci, limoni; con a terra, barili di pesce marinato e mastelle di pesce in salamoia. Accanto ai ‘posteggi con delizie’, sono le persone mai dimenticate, come la Tisbe, la Pèccia, la Poccia, Sugubòtt, la Sina d’Egidio, e Musìn, e Studènt, la Marietta de Piturèl. A due metri di distanza, poi, intramezzate, sono ‘solenni aree crematorie specialità della Dittà Fìri d’Santarcanzàl dove – trafitti da fioretto culinario, infarciti di lardelli e laureati di rosmarino, sudanti strutto e olio pel martirio subito- grossi polli in rango s’incitrulliscono ai giri manuali della sacerdotessa dello schidione’.
Quanta fatica per avanzare d’un solo passo, sudati, verso ‘i due Borghi’. A sinistra è appostato il ‘povero cieco nato’; a destra il venditore di laccetti da scarpe da dieci soldi la dozzina con, al fianco, il venditore dei ‘lapis copiativi’, davvero un miracolo per due al soldo; c’è anche il sordomuto. E c’è anche il ‘bulo cantastorie che s’accompagna alla chitarra’. Un altro vigoroso strappo ancora e, come liberati, s’approda alla piazza maggiore. Dove impazza una assordante bailamme. Di umori, voci, colori. Pare infatti che, qui, tutti abbiano qualcosa ‘ di grande o di piccolo’ sul quale richiamare attenzione. E’ allora ‘una esplosione d’energia al grido più sonoro; all’esibizione più iperbolica, tutta combattuta tra venditori fissi e ambulanti’. Venditori che giungono da ogni regione d’Italia. Fra i fissi: i si notano i mercanti di stoffe, ritti sul davanti dei loro camion; fra gli ambulanti, invece, ci sono il lucchese dalle statuine mondiali in gesso, il venditore di tavolini e panieri e trespoli di vimini porporinati in oro e l’immancabile persiano… di Napoli, il venditore di oggetti in legno di Sorrento. Non bastasse tutto questo, nella piazza attigua (già) della Canapa, s’è ritagliato uno spazio per una grande giostra girata – per la felicità dei ragazzi e delle serve- a suono di organo da cattedrale con, aggiunto, un provocatorio tiro a segno. Intanto un folto capannello, sotto i portici di Torlonia, si assiepa attorno ad una donna bendata, che ‘ fattasi trono d’una sedia montata su una cassa d’imballaggio legge- com’ella dice- nel pensiero, illuminando il futuro’. L’atmosfera è caotica, ma eccitante. All’improvviso, alcune cannonate di grancassa attraggono la folla verso il principio del Passeggio, dove dall’antivigilia è stata collocata una delle attrazioni maggiori di quell’anno; ovvero una ‘grande collezione d’animali di carne veramente naturale’ come tiene a dire la ‘spiegatrice’, cecoslovacca, davvero imponente e dal nome impronunciabile. “ Avanti lori signori, non si mostrino scorbutici – grida la ‘spiegatrice’ in pretenzioso toscano all’ingresso del padiglione-, il tutto si mostra per la vile moneta di mezza lira, ovverossia di cinquanta centesimi, che non sono la rovina della famiglia!”. L’interno del padiglione è tutto uno stupore. C’è il ‘magnifico cicanto lione proveniente dal Mondo Atlante de l’Africa’; e c’è anche la foca monaca, pescata ‘nelle più alte montagne del Paraguaj, presso le costole dell’Africa, e che si cibba conytinovamente di anguille e di altri velocipedi’. La foca risponde, sbalordendo, a qualsiasi domanda.

 LA NOBILE COMITIVA. “ Ragazzi- dice un membro dell’illustre comitiva già incontrata in via dei Nobili- se ci incantiamo qui non arriviamo d’ora alla giocata del pallone e oggi, come ogni anno per la Fiera, l’andarvi è d’obbligo, anche perché la giocata è a beneficio del Ricovero Vecchi!”. Il corteo degli illustri si sposta allora verso lo Sferisterio. Che il Professore, illustra dottamente ai compagni, unitamente alle regole del gioco.

“Qui è nato un vivaio d’artisti del bracciale- dice compiaciuto- di rinomanza ultracentenaria, quali Sante d’Bianchein, Bigein Amati, Oreste Macelli detto ‘è livar’, Giacomo, Lorenzo e Ugo Amati, Darold, i fratelli Franchini, il conte Eugenio Marini, Piròz e Marcòn Paglierani, i due Benedetti Flavio e Alfredo, Caio Carlini capace “d’alternare- solo lui- il bracciale, al sòcco melodrammatico da rinomato tenore”. Il Professore, mentre i giocatori scendono nell’arena ed iniziano il gioco, non manca anche di rammentare alla comitiva d’avere incontrato in una via di Torino, più o meno una ventina d’anni avanti, tale Edmondo De Amicis che gli ‘magnificò’ i giocatori conosciuti a Santarcangelo e ai quali dedicò, poi, il suo ‘I Rossi e gli Azzurri’. Le ore intanto si consumano veloci insieme alle emozioni. Alle spalle delle Contrade e della Rocca il cielo imbruna, lui sì, in silenzio. L’ombre della notte contribuiscono a rendere vellutata l’atmosfera.

IL FINALE. La Fiera è sorprendentemente ancora piena di seduzioni. Ma occorre scegliere. Che dire allora di ‘benfinire’ la giornata alla sala Eden dove, non si sa come e perché, si inizia ballare in due e si finisce desideratamente in tre? Momenti ulteriori, dunque, di sollazzo. Poi, alla ‘fine della storia’ come diceva Cyrano de Bergèrac, si può uscire all’aperto a rimirare le stelle. Ovunque c’è aria di smobilitazione, come accadeva solo per quegli enormi accampamenti militari d’un tempo al termine di una qualche campagna bellica. Sì, perché ( la ricostruzione) della fiera ( di San Martino) d’una volta (1931?) s’è, ora, per davvero esaurita; e gli ultimi palpiti è meglio lasciarli in esclusiva ‘agli amanti campagnoli che rincasano a braccetto a notte fonda’.

( Si ringrazia in Pino Zangoli, presidente della Pro Loco, per la collaborazione offerta).

 

 

Roberto Vannoni

 

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