Padre Tosi e mons. Sambi. Quasi un ‘passaggio di testimone’, tra religiosità e umanità romagnole.

Padre Tosi e mons. Sambi. Quasi un ‘passaggio di testimone’, tra religiosità e umanità romagnole.
1 Mons. Sambi col Papa e Bush, nel 2008.

RELIGIOSITA’ ROMAGNOLA CONTEMPORANEA. Giovedì 29, incontro alla biblioteca ‘ Baldini’ di Santarcangelo per la presentazione di due libri, dedicati a padre Pasquale Tosi, sanvitese, missionario gesuita  in Nord America e Alaska. I due volumi, dal titolo:  ‘La vita di padre Pasquale Tosi (1835-1898)’  e‘Pasquale Tosi. Un romagnolo sanvitese (1835-1898)’, costituiscono un prezioso ( e quanto mai  atteso) aggiornamento storiografico su uno dei personaggi di maggior rilievo dell’Ottocento romagnolo.

Sul quale, da qualche anno, s’era accesso un certo interesse grazie soprattutto a contributi come quello di mons. Pietro Sambi, altra grande figura religiosa romagnola scomparsa nel 2011 negli Stati Uniti a seguito d’un improvviso male incurabile, e che da storiografo di razza non ha lesinato sforzi perchè si aggiornasse e  completasse il profilo del suo importante conterraneo.  Ecco quindi spiegato il perchè di questo straordinario ‘abbinamento‘, quasi un passaggio di testimone, tra fondamentali testimoni della religiosità cristiana romagnola tra Ottocento e  Contemporaneità.

(1) IL RICORDO DI MONS. SAMBI E PADRE TOSI. Mons Pietro Sambi, deceduto lo scorso anno, dal 2005 era il titolare della Nunziatura apostolica della Santa Sede a Washington, alloggiata in uno splendido angolo verde della capitale, esattamente nella Massachusset Avenue 339, proprio di fronte alla residenza ufficiale del vice presidente americano. L’adeguato coronamento, per mons. Pietro Sambi, 78 anni, soglianese di Ponte Uso, d’una lunga e prestigiosa carriera diplomatica di volta in volta nel ‘cuore’ di alcuni ‘ crocevia’ del Pianeta: Camerun, Algeria, Nicaragua, India, Burundi, Indonesia e – dal 1998 al 2005 – Israele e Palestina.
La diplomazia vaticana che in questi campi è ‘maestra’, non fa mai le scelte a caso. E se mons. Sambi è stato per anni il suo principale punto di riferimento nel paese più importante al mondo, le ragioni devono essere più d’una. E per chi l’ha conosciuto, abbastanza evidenti:  cultura e umanità, esperienza e generosità, concretezza e rispetto dell’uomo ma anche – se vogliamo completarne il profilo –  fiotti d’un humor tutto romagnolo che, aprendo al sorriso, inducevano piacevolmente all’ascolto. Eppoi una disponibilità rara, visto che con mons. Sambi, che ha al suo attivo anche importanti studi storiografici locali e non solo, si poteva parlare di tutto. O quasi.

Mons. Sambi  s’ispirava agli uomini di fede. A cui dedicava studi importanti. Com’è accaduto ( più volte) per  padre Pasquale Tosi, gesuita, esploratore e civilizzatore dell’Alaska, nato a San Vito nel 1835 e morto a Juneau il 1898. E del quale, a Natale, è uscita una biografia aggiornata resa possibile  proprio per la disponibilità di mons Sambi che ha consentito l’accesso  a documenti inediti da lui rintracciati negli Stati Uniti, presso l’università Gonzaga.
“ M’è capitato qualche tempo fa di andare in visita a Juneau – raccontò mons. Sambi durante l’ultima celebrazione – e, in elicottero, ho sorvolato i territori che padre Tosi e qualche altro suo compagno d’avventura hanno percorso, oltre un secolo fa, per civilizzare quella parte inesplorata del continente nord americano. A parte lo spettacolo naturale, bello ma terrificante, mi sono chiesto quanta fede dovesse soffiare nella sua anima per indurlo a superare tante asperità. Tanti pericoli. Sono stato anche, nella capitale dell’Alaska, sulla sua tomba posta accanto a quella del cercatore d’oro Juneau, l’uno e l’altro affiancati, com’è giusto per quelli che a buon diritto (da quelle parti) sono considerati i ‘padri’ fondatori del grande e freddo stato nordamericano”.

 

 IL PROFILO DI PADRE TOSI. E’ sepolto a Juneau, capoluogo della costa occidentale del Canada che appartiene all’Alaska, padre Pasquale Tosi, membro della Compagnia di Gesù, nato il 27 aprile 1835 a San Vito, sulla sponda destra dell’Uso, per molti l’antico Rubicone. A Juneau, sono ‘ancora molti’ quelli che recano un fiore sulla tomba di questo straordinario ‘esploratore e missionario’, deceduto il 14 gennaio 1898 per problemi cardiaci, ma sempre ‘vivo’ per quella ‘traccia’ singolare che solo esistenze come la sua lasciano al Mondo meritando, davvero, per questo ed altro, d’essere conosciute più in dettaglio.

Padre Pasquale Tosi nasce da modesti possidenti della parrocchia di San Vito, nella casa dov’è attualmente insediato l’Hotel Verde Mare, nella frazione che appartiene al comune di Santarcangelo. “ 28 aprile 1835: io battezzai il bambino nato ieri- annota infatti il parroco – dal matrimonio di Luigi Tosi e Rosa Logorasi di questa pieve, al quale fu dato nome Pasquale. I padrini furono Giovanni Pedrosi di Camerano e Maria Fabroni di questa parrocchia. Così è, Giovanardo Giovanardi arciprete”. Da ragazzo, il futuro padre Tosi, frequenta le elementari di Santarcangelo, dove stringe solida amicizia con Imerio Sacchini, organista della Collegiata, avo di Clarice Sacchini, moglie di Flavio Nicolini. I genitori, di sentimenti e cognizioni profondamente cristiani, accettarono con gioia la sua richiesta di adolescente di entrare in seminario, allora ubicato a Bertinoro, retto da gesuiti. Nel 1861 Pasquale Tosi viene ordinato sacerdote, una ‘professione’ che esplicherà dapprima per una decina di mesi presso la parrocchia natia e , in seguito, trascorsi tre anni alla Compagnia di Gesù, presso le missioni. Nel 1865 salpa per l’America, dove resterà per molti anni, testimone coraggioso di fede e civiltà, in luoghi inesplorati, impervi, pericolosi e per noi carichi tuttora di suggestioni fantastiche derivate da fonti diverse, come i fumetti, la letteratura o il cinema, trattandosi infatti del mitico Ovest americano, delle Rocky Mountains e, perfino, del territorio dell’Alaska, ovvero di quella parte occidentale meno esplorata dell’immenso Nord continentale.

Padre Tosi mantiene in tutti quegli anni una corrispondenza con la famiglia. In data 2 giugno 1872, infatti, scrive alla sorella Fedele, benedettina nel convento di Cesena. ” In sei anni da che mi trovo sulle Montagne – rivela – non ho mai avuto né pagliericcio, né materasso, né lettiera, sia a casa, sia fuori casa. La casa qui in Missione è fatta di legno intonacata di fango, e così sono tutti i nostri fabbricati. Fuori di casa, poi, la nostra casa consiste in una tela posta sopra tre bastoncelli attaccata intorno a piuoli, cavicchi o pali piantati in terra, che forma una piccola ombrella che ci ripara dall’acqua quando piove o dal sole dell’estate”. “ Nei campi, poi, la loggia ( o tenda) serve per abitazione, per chiesa e per tutto: là dentro- aggiunge- si dice messa. Il popolo sta attorno dicendo le preghiere; cantando anche, di quando in quando, alcuni canti in lingua selvaggia… Qui i selvaggi fanno gran festa quando scorgono la veste ‘nera’ del ‘padre’ giungendo, talvolta, anche da luoghi distanti 20/30 miglia dal campamento. Se i selvaggi non fossero avvelenati dai liquori che i bianchi vendono o danno loro sarebbero molto migliori”. E’ una visione, questa, per molti versi divergente da quella comunemente diffusa tra noi. La testimonianza sulle condizioni di vita dei pellirossa di padre Tosi è infatti più concreta e scioccante. In quegli anni, inoltre, i missionari della Compagnia di Gesù fanno molti proseliti tra i pellirossa, proprio a causa delle loro condizioni.

“ Se tu non ci hai compassione- implorano padre Tosi alcuni capi – nessuno ci guarda. Noi preghiamo per te e tu non ci lasciare. Se tu ci abbandoni, noi siamo perduti”. Così toccato, padre Tosi non abbandonerà mai più quella gente, anzi, farà di tutto per sostenerla nella tremenda lotta per la sopravvivenza.

In una lettera alla madre del 22 gennaio 1873, padre Tosi riferisce di stare svolgendo un periodo di missione, lungo e difficoltoso, tanto che in più d’una circostanza “non vi mancò nulla- sottolinea- che vi lasciassi la vita”. Padre Tosi supera, in quegli anni, privazioni fisiche incredibili che avrebbero, in seguito, minato la sua forte fibra. Nel 1880 il suo apostolato si sposta più a sud; in regioni dove entra in contatto con una quantità indefinita di selvaggi di differenti nazioni e comunque quasi tutti, precisa, in “condizioni da far veramente pietà”, sopratutto perché rotti ad ogni vizio. Solo verso il 1886, per quanto le energie fisiche non fossero più quelle del ‘muletto’ di un tempo, come si autodefiniva, pensa di trasferire la sua opera missionaria all’estremo nord, pressoché inesplorato, tra gli abitanti della gelida regione dell’Alaska. Ogni opera missionaria richiede grandi sacrifici e dunque grande tempra. Ma quella in Alaska “ fu senza discussione- affermò un suo superiore- la più dura che il mondo abbia mai conosciuto”.

Lassù, dove a dominare incontrastati erano ( e restano) i grandi silenzi, i ghiacciai perenni, le alte cime innevate di montagne ‘martoriate’ dalle intemperie; con oltre 1200 isole, alcune delle quali allora menzionate per le cave d’oro, rame, stagno, zinco, e quindi capaci di attirare la più parte solo pericolosi avventurieri.

Un viaggiatore scrisse: “ Non so se ci sia l’inferno, ma se c’è non può essere più terribile dell’Alaska”. Un landa tanto inospitale, quindi, da contare non più di 60 mila abitanti. La missione avviata dai Gesuiti nel 1886, comprende inizialmente cinque membri, rapidamente ridotti a due. Giunta a Nulato, la missione trova solo “selvaggi difficili da trattare soprattutto per l’influenza che avevano presso di loro gli uomini di medicina”. I due sopravvissuti si fermano, ma non dispongono di nulla tanto che, nel 1888, “piansero di gioia al vedere arrivare ( altri) cinque religiosi: padre Genna e il fratello Rosati, oltre a tre suore di Sant’Anna”.
La gran parte dell’interno dell’Alaska era allora un autentico rompicapo. Padre Tosi, una volta, vuole addentrarsi e visita 40 villaggi, facendoli trascrivere per la prima volta sulla carta geografica. In Alaska la donna, indigena o bianca che sia, più che moglie è schiava dell’uomo, mentre i ‘figli della colpa’ vengono regolarmente abbandonati. Lui, padre Tosi, invece, per quanto possibile, li raccoglie impartendo loro le cognizioni elementari del leggere e dello scrivere e perfino della musica, consegnandoli infine alle suore di Holy Cross. Ma questi sono solo alcuni dei tantissimi ‘frammenti’ di vita di padre Tosi, che necessiterebbero di ben altro spazio per essere adeguatamente conosciuti e meditati. Per chiudere, verso la fine del 1892, padre Tosi torna in Italia. E’ accolto, amorevolmente, da papa Leone XIII che lo incoraggia a proseguire il lavoro svolto con queste parole: “ Andate, fate voi da Papa in quelle regioni”, confermandogli in pratica ogni facoltà sacerdotale, compresa quella di amministrare la cresima. Appena il tempo di rivedere la sua terra, la gente rimasta, eppoi, di nuovo il ritorno in Alaska dove, a sigillo di una esistenza tutta dedita al prossimo, padre Tosi oltre a dare vita a tre nuove stazioni missionarie intraprende un lungo viaggio verso il golfo di Kotzebue Sound, oltre lo stretto di Bering, stabilendovi un’altra missione ed una scuola.

“ Nessuno ha viaggiato in Alaska quando padre Tosi” scriverà l’Alaska News, alla sua morte. Ma più che l’età, appena 63 anni, sono le fatiche, le privazioni, le malattie patite e non curate al meglio a spegnere definitivamente questo “ benemerito della fede e della civiltà”.

Oggi, sulla mediterranea facciata della chiesa di San Vito una lapide recita: “ Al nome e alla gloria – immortale – di padre Pasquale Tosi, ardente missionario del Cristo; ardito esploratore, per la civiltà; primo apostolo delle lande, della scabra, ghiacciata Alaska”. Parole credibili, lette tuttora con grande rispetto a Juneau, il capoluogo del freddo e sterminato stato nordamericano che proprio grazie ad instancabili  ‘muletti’ come padre Pasquale Tosi ha potuto definitivamente entrare, nel 1959, quale 49° stato degli Usa, nella grande comunità dei paesi civili del Pianeta.

Roberto Vannoni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“ So molto bene cosa vuol dire stare tanti anni lontano da casa. E immagino che per un uomo di fede – confessò candidamente –, nei giorni d’attesa della morte, l’ultimo pensiero sia rivolto al Creatore; il penultimo, invece, alla propria terra, alla propria gente. A Juneau mi sono inginocchiato sulla sua tomba, e ammetto d’avere avvertito un ‘dolore’, forse simile al suo. Il dolore di non avere accanto, nel congedo estremo, le voci e i volti più cari. Per questo m’è venuto naturale confortarlo con una battuta in dialetto. Come ci si conforta, di solito, tra noi romagnoli quando ci si ‘ritrova’ inaspettatamente tanto lontano da casa …”. La sua casa, la loro casa. In quella sterminata distesa di buio e ghiaccio ai confini del mondo, in cui ad entrambi – guarda caso – la Provvidenza affidò il compito d’essere ‘nunziatori apostolici’ della remota e universale Chiesa di Roma.

 

 

Roberto Vannoni

 

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