Valmarecchia. Il ‘canto’ di don Marco Mainardi. Per cogliere lo ‘spirito nobile’ d’una Vallata del Centro Italia.

Valmarecchia. Il ‘canto’ di don Marco Mainardi. Per cogliere lo ‘spirito nobile’ d’una Vallata del Centro Italia.
Don Marco Mainardi

IL CANTO DELLA VALMARECCHIA.  Sicuramente  qualcuno, tra quelli d’una certa età,  lo ricorda ; certo non le nuove generazioni, visto che se n’è andato il 15 aprile del 1970. Lui è don Marco Mainardi, nato nel 1907 a Soanne, ma parroco di Mercatino Marecchia ( poi Novafeltria) dal 26 maggio del 1938. Lo ricordano, quelli di una certa età, perché oltre che ad un amorevole uomo di Chiesa è stato anche uno straordinario studioso, conoscitore delle lingue antiche e autore di un enorme ( e tuttora inesplorato)  materiale  storiografico, poetico e letterario.
Solo il maestro Amedeo Varotti che, nel 1985, ebbe l’occasione di curare l’edizione del volumetto ‘Il canto della Valmarecchia e delle Convalli’ ( Litografia Studiostampa, RSM), ha cercato  di mettere giustamente in evidenza la difficoltà di riunire in una silloge omogenea gli scritti di don Mainardi “per la pluralità degli interessi, per lo stato di frammento in cui si rilevano molte pagine, per la varietà tematica degli scritti in prosa ed in versi”.
Eppure, se ci si vuole ‘impossessare’ dello ‘spirito nobile’  di una  valle  tra le più ‘appartate’ ma anche tra le più ‘stimolanti’ dell’Appennino centrale, non è possibile ignorare quanto su questa terra ha scritto don Mainardi. Nel ‘Canto della Valmarecchia’, breve poemetto in endecasillabi sciolti, egli lancia in proposito un invito provvidenziale. Giusto tuttavia  precisare che se, da un lato, resta vero che le “ varie notizie che s’incontrano nella lettura del testo non resistono alla più scaltrita storiografia dei nostri tempi e soprattutto all’odierna indagine filologica”, dall’altro, esse non “scalfiscono minimamente il suo cantare”, frutto apollineo e suadente di ragione e passione.
Intanto, nell’opera di don Marco, si mettono in chiaro le antiche radici, antichissime, tra necropoli e delubri umbri, etruschi e latini, tutti ‘vegliati’ dal ‘solitario’ San Leo, ma anche dalla ‘verde scogliera’ del Titano e dalla ‘ardita mole naturale’dell’Aquilone. Poi, il susseguirsi dei popoli che transitarono: romani innanzitutto, ma anche Eruli, Ostrogoti, Visigoti, Longobardi, Franchi, per fermarsi ai primi secoli dopo Cristo. E inoltre una schiera di personaggi di tutto riguardo: sant’ Enrico II e la consorte santa Cunegonda ( nell’anno 1014); il Barbarossa ( nel 1155, quando  transitò nella Valle per recarsi a  Roma per essere incoronato imperatore da papa Adriano IV); santo Francesco d’Assisi ( l’8 maggio del 1213, in documentata compagnia di  frate Leone) e  altri ancora.
Dal grembo della vallata nacquero Guido da Montefeltro ( a San Leo, nel 1222) e Uguccione signore della Faggiola di Cateldelci, che ebbe la sorte di ospitare Dante bandito da Firenze. Qui certo soggiornarono Macchiavelli ( nel 1499) e anche Leonardo ( nel 1502/1503). Nel ‘Canto’ non vengono trascurati anche i soggiorni di Giotto a Poggiolo e di un tale Raffaello da Urbino adolescente in quel di Scavolino ( nel 1493/1494). Tanti popoli, tanti accadimenti, quindi, tante personalità, ciascuno capace di lasciare ‘segni’, spesso importanti anche se non adeguatamente messi in risalto da chi di dovere; ‘segni’ succedutesi da un epoca all’altra, e tutti accolti  qui nel modo caratterialmente più consono, ovvero, con abituale discrezione e  senza arrogarsi mai ‘merito’ alcuno.

LE ORAZIONI RELIGIOSE E CIVILI. Don Marco Mainardi è stato autore tra l’altro di ‘mirabili ed edificanti prediche’. Molte dal pulpito di San Pietro in Culto. Qualcuna dalla scalinata di Santa Marina. Qualche altra dall’ombra dell’obelisco grigio di pietra del monumento ai Caduti di tutte le guerre. Soprattutto, qui, infatti, ad ogni ricorrenza del 4 Novembre, davanti alla solita piccola folla di cittadini ed autorità, don Marco sapeva far risaltare quella sua straordinaria umanità che si saldava con un amor di Patria capace di  avvolgere  in un unico fascio  storia nazionale, locale e vicende personali. Spesso molto dolorose, come quelle legate alla perdita dell’amato fratello nell’ultima guerra. E comunque capaci ogni volta di tingersi dei colori della poesia.
Come quella mattina in cui, rievocando  al solito  i giovani caduti scolpiti nel bronzo, alzando le braccia verso il cielo umido e grigio d’autunno,  suggerì ai presenti  una immagine che sembrò materializzarsi all’istante come su quei moderni megaschermi che, oggi, nei grandi convegni, si collocano alle spalle degli oratori.  “ E li rivedo tutti i nostri ragazzi – attaccò commosso-, l’uno dietro all’altro affardellati,  mentre risalgono uno dietro all’altro le aspre pietraie del Carso o arrancano stremati sulle roventi sabbie del Nord Africa. Li rivedo tutti i nostri ragazzi …”

 

Ro.Va.

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