Alle radici della fede. Il ‘passaggio’ di Giotto. Rimini e la grande pittura di scuola giottesca.

I GRANDI CONVENTI DEL MEDIOEVO. Nei primi secoli dopo il Mille, Rimini tornò a rioccupare gli spazi urbani abbandonati nell’Alto Medioevo, attrezzando un nuovo porto e ripartendo alla conquista del territorio ( lo stesso appartenuto all’antica Curia municipale romana), contendendolo tanto alla Chiesa locale quanto a quella ravennate.
Nello stesso tempo riallacciò i suoi rapporti commerciali anche con città lontane, soprattutto quelle del Nord, mettendo così le basi per una consistente ‘rinascita’ ( non soltanto) economica.
Il tutto in coincidenza con il controverso e delicato periodo delle eresie. Come quella ‘patarina’ che a Rimini ebbe i suoi seguaci, forse favorita dall’autorità comunale stessa.
Bramosa com’era di mettere sotto controllo i ricchi patrimoni ecclesiastici, pur col rischio di accendere ‘focolai’ portatori di grandi tensioni sociali e religiose. Di certo, la gran parte della popolazione, non soddisfatta dell’esistente, cominciò ad invocare l’arrivo in città dei nuovi ordini, ‘poveri’ o ‘mendicanti’ che fossero, quali i Domenicani e i Francescani oppure gli Agostiniani e i Serviti.
Alle diaspore dottrinali si porrà un freno a partire ( più o meno) dagli inizi del Trecento, allorquando i Malatesti – in quel secolo ormai i ‘signori’ riconosciuti della Città- troveranno vantaggioso favorire una politica di riconciliazione con la Chiesa. A quel punto, a sostenere la protestataria rinuncia ai ‘beni materiali’, restarono solo in pochi, abilmente emarginati e ‘messi sotto controllo’.
E’ in questo contesto che salirono d’importanza i monasteri. Di cui, in territorio riminese, si ha notizia fin dall’Alto Medioevo. Si trattò, allora, almeno inizialmente, di ‘piccole chiese così chiamate perché affidate ad un solo sacerdote o, se sparse in campagna o in collina, a qualche santo eremita’.
I PRIMI INSEDIAMENTI. I primi insediamenti monasteriali appartennero ai Benedettini. Un ordine a cui vanno assegnate infatti le abbazie di San Giuliano e di San Gaudenzo, che non dovettero essere però le uniche della zona, vista anche la grande notorietà raggiunta da quella di San Gregorio, nei pressi di Morciano.
D’epoca ( molto) antica va inoltre considerata l’abbazia di Montetiffi, tuttora svettante di luce su un ameno rilievo di collina, poco lontano da Sogliano. Il Duecento ( in particolare ) è il secolo degli ordini mendicanti, tutti forniti ( generalmente) di abili predicatori dal comportamento assai più intraprendente ed incisivo rispetto a quello dei confratelli più datati, come i Benedettini.
GLI ORDINI MENDICANTI. A Rimini e territorio, gli ordini mendicanti si affermarono ben presto grazie a ‘ buoni conventi e nuove chiese’. Di cui, purtroppo, soprattutto in Città, sono rimaste solo scarne ‘tracce’.
I conventi domenicani, ad esempio, ‘sono scomparsi’ del tutto; mentre di quelli francescani resta solo la ( celebre) versione ‘malatestiana’ della seconda metà del Quattrocento.
Se si vuole rintracciare gli originari manufatti francescani occorre perciò uscire dalla Città e percorrere qualche chilometro lungo la valle del Marecchia portandosi oltre Villa Verucchio dove, alle prime balze del contrafforte che funse da ‘nido’ a Mastino il Centenario, si può ammirare l’insediamento ‘fratesco francescano’ più antico della Regione. Altro grande insediamento dei poverelli d’Assisi venne installato poco distante da Verucchio, sulla sponda opposta del Marecchia, esattamente a Santarcangelo, in quella parte centrale del paese ( piazza Ganganelli ) dove, oggi, al posto del grande convento francescano trecentesco abbattuto nel tardo Ottocento, è ubicata l’attuale scuola elementare.
Di quello straordinario e ricco complesso religioso non restano purtroppo che alcuni resti, tuttora chiaramente decifrabili, ma poco (ri)utilizzabili, oltre a qualche preziosa opera d’arte, alloggiata però altrove.
IL ‘PASSAGGIO’ DI GIOTTO. I conventi francescani furono testimoni preziosi di straordinari incroci tra fede, cultura ed arte. Incroci che hanno segnato un’epoca. Una società. Tanto che chi ama il Riminese non può ancor oggi evitare i luoghi francescani. A partire da quelli che ospitavano edifici che non ci sono più.
Come la più importante chiesa francescana della diocesi riminese, quella che ( probabilmente) sorgeva poco lontano alla ‘fossa Patara’, ovvero ai margini d’un minuscolo ‘broilo’ entro le mura cittadine, sulle vestigia della antica chiesa parrocchiale Santa Maria in Trivio, donata nel 1259 dai Benedettini di Pomposa ai Francescani.
E fu proprio qui che Giotto , secondo attendibili testimonianze, ‘lasciò dei dipinti nella cappella absidale’, offrendo ghiotta materia dal Vasari in poi per fantasiose congetture.
Di quegli affreschi, ovviamente, non v’è più traccia, ma solo una particolare eccezione. Nel 1935, infatti, ecco apparire una ‘vecchia croce’, dipinta su una tavola sagomata e mutilata, che rivelò sotto altre dipinture l’immagine d’un Crocifisso di straordinaria bellezza, presto riconosciuta come opera autografa di Giotto. Opera che parrebbe (addirittura) ‘avulsa’ dal contesto del tempo, soprattutto se considerata per la sua rivoluzionaria iconografia.
Ruotante non su una ‘ immagine piatta e sontuosa’, e neppure intesa quale ‘sigla dolorosa come tradizione imponeva ’, ma su una figura delineata realisticamente e di toccante, palpabile umanità. E’ di certo molto suggestivo immaginare quel Crocifisso appeso nella penombra d’un aula francescana, semplice e spoglia.
Con quel suo capo dolcemente reclinato, quasi a riposo. Nell’attesa del ‘risveglio’ o della ‘resurrezione’, che è il fondamento d’una fede ‘riscoperta’ e ‘rinvigorita’ proprio attraverso un’opera che rendeva remota la religiosità ‘tenebrosa e patetica’, ‘fantasiosa e astratta’, coltivata per secoli dalla tradizione.
Il periodo di cui sopra, è anche un frangente in cui architettura e pittura, come s’usa dire,‘ andarono a braccetto’. Del resto, come i Francescani, anche gli altri ordini religiosi cittadini non tardarono ad aggiornarsi. Rivolgendosi pure loro ad artisti di livello, non solo locali. Tuttavia, a segnare il nuovo corso dell’arte a Rimini e sul territorio furono soprattutto i cosiddetti giotteschi ‘segnati’ tutti, senz’ombra di dubbio, dal proficuo ‘passaggio’ di Giotto.
Di quel tempo creativo, a Rimini, è rimasta la chiesa degli Eremitani di Sant’Agostino che conserva il ‘nucleo’ più consistente delle opere di quegli artisti. Basti soffermarsi sugli affreschi della cappella absidale oppure su quelli della cappella del campanile, oltre che su un ‘Crocifisso’ dipinto su tavola sagomata molto simile per impostazione e disegno ad opere analoghe di Giotto. Da sottolineare che, della stessa epoca, figurano nello stesso edificio un ‘Giudizio universale’, dipinto su arco trionfale ( parzialmente recuperato, ora al Museo della Città) e un ritratto con la ‘Madonna in maestà fra San Giovanni Evangelista e San Paolo’ ( Venezia, ora Museo Correr).
Se ci si inoltra in Sant’Agostino, consigliabile è il ricorso all’immaginazione. Per recuperare senza filtri ‘emozioni’ e ‘messaggi’ all’interno di un contesto trasformato tra Sei e Settecento. Qui, i fedeli, si trovavano davanti ad un ‘grande vano spoglio coperto da capriate, diviso quasi a metà da un tramezzo che delimitava lo spazio riservato ai frati’. Dove accarezzare con lo sguardo l’apparizione del grande ‘Crocifisso’ dipinto su tavola; dopodiché, inevitabile, è scalare sul ‘Giudizio universale’, dove il ‘Cristo giudice’ altri non è che il ‘Cristo crocefisso’.
Avanzando, poi, verso la cappella di destra, non si possono che ammirare gli stupendi affreschi che raccontano la vita della Madonna, dal ‘concepimento’ alla ‘dormitio’. I dipinti, databili fra il 1308 e il 1318, sono opera di autori diversi che lavorarono per gli Eremitani di Rimini, ma anche per i confratelli di Padova, Fabriano e Tolentino.
Gli stessi autori, però, più che per gli Eremitani lavorarono per i Francescani, i loro maggiori committenti. Nelle chiese francescane i pittori riminesi di quel fertile periodo lasciarono stupendi cicli d’affreschi ( Verucchio); oltre che preziosi crocifissi, dossali e polittici.
Tra le ultime botteghe rimaste attive (almeno) fino alla metà del Trecento ( probabilmente) fu quella di Giovanni Baronzio, morto prima del 1362 e quindi sepolto nel cimitero di San Francesco. Di lui si dice essere stato raffinato, lento, talvolta anacronistico, ma pur sempre un grande pennello come dimostra il polittico francescano di Macerata Feltria, ora ad Urbino.
Il suo capolavoro, costituito dai polittici gemelli commissionati per la scomparsa Cattedrale di Rimini, ovvero una ‘Crocifissione’ ed una ‘Santa Colomba’, nella loro sontuosità sembrarono voler riflettere sulla fioritura economica cittadina e sul fasto d’una corte, quella malatestiana, ormai incontrastata ‘signora’ della Città.
Roberto Vannoni
Nella immagine, ‘Il ritorno a Efeso di San Giovanni Evangelista’, 1310 circa, Rimini, chiesa di San Giovanni Evangelista ( Sant’Agostino), particolare degli affreschi dell’abside.