Anniversari. Il martirio del prof. Rino Molari. Fucilato dai nazisti a Fossoli, all’alba del 12 luglio 1944.

SANTARCANGELO d/R. Nel primo Dopoguerra, gli amministratori clementini scelsero un ‘ manipolo’ di antifascisti per celebrare anche sui muri delle case i valori della democrazia e della libertà riconquistate. Di alcuni di loro, abbiamo già raccontato. Ci è rimasto Rino Molari, che è anche l’unico santarcangiolese tra quelli allora prescelti.
A lui, l’Amministrazione dedicò una via ‘breve’, ma ‘di snodo’, perché fondamentale nel collegare piazza Ganganelli con il Combarbio sul quale convergono da direzioni diverse via don Minzoni e via Cavour, via Matteotti e la scenografica Scalinata. Una via centrale insomma, com’è del resto centrale la figura del Professore nel contesto meno ideologico e più autenticamente umano dell’antifascismo cittadino e romagnolo.
Rino Molari nasce il 9 maggio del 1911, presso l’antica Pieve di Santarcangelo. Un edificio dove la stratificazione delle pietre racconta d’epoche remote e diverse; e dove i contorti pini ad alto fusto che la proteggono si riempiono, a ridosso del mese di maggio, di nidi e canti d’uccelli. I suoi genitori, Maria Tito e Cecilia Ricci, custodi della Pieve, sono dediti al lavoro dei campi. E’ a lui, terzo ed ultimo maschio, che essi affidano il nome del nonno paterno.
Dall’ ambiente di famiglia – che sembra avere nutrito anche una radice ‘sovversiva’ nel nonno paterno, carbonaro esule a Londra per decenni- Rino Molari respira i valori del lavoro e dell’impegno civile, senza indulgimenti verso i soliti ‘trasformismi’ né ammiccamenti verso ogni ‘ingerenza politica’; peculiarità, queste, evidenti soprattutto dal momento in cui le squadre fasciste prendono a spadroneggiare in paese e nelle contrade limitrofe.
Rino Molari, dopo le elementari a Santarcangelo con il maestro De Girolami, prosegue gli studi presso il seminario vescovile di Rimini dove, nell’autunno del 1923, inizia il ginnasio; continuando, poi, alla fine del 1928, al seminario regionale di Bologna, per frequentare il liceo ed iniziare i corsi di teologia. Rino vorrebbe trasferirsi alla ‘Gregoriana’, ma per la famiglia l’onere economico è eccessivo e deve rassegnarsi a restare a Bologna.
Nel 1933, al secondo anno appena, lascia il seminario e si iscrive alla facoltà di Lettere dell’ateneo bolognese dove ritrova cari amici, alcuni dei quali usciti quanto lui dal seminario ( come il futuro senatore Gino Zannini e il professor Carlo Bizzochi ); frequentando, inoltre, i circoli dell’Azione Cattolica e della Fuci.
Nel 1936/1937 si laurea in glottologia (aiutato anche dal Bizzochi perché ‘ essendo un po’stonato, necessitava di un qualche aiuto a cogliere la differenza di certi dittonghi’ ) con la tesi ‘I dialetti di Santarcangelo e della vallata del Marecchia a monte di Sant’Arcangelo’, ora depositata presso la Biblioteca Comunale.
Insomma: lui è tutto studio, scuola ( nel 1942 ottiene dapprima una cattedra alla Magistrale di Nuoro e successivamente un incarico alle Medie di Riccione), esperienze religiose e nel sociale, ma anche passione per la caccia, ereditata dal padre. Fra il ’41 e il ’42, malgrado fosse stato esonerato dal servizio militare per problemi alla vista, è chiamato alle armi e assegnato ai servizi sanitari presso l’ospedale militare dell’Abbadia, a Bologna.
Il lunedì di Pasqua del 1942, durante una licenza militare, sposa Eva Manenti, insegnante elementare, figlia del geometra comunale, conosciuta a Novafeltria. Il 7 marzo del 1943 nasce Gabriele, così chiamato in onore del suo ‘maestro’ d’università, il professor Gabriele Goidanich. Da questo periodo in avanti però la sua vita, al pari di quella d’altri milioni di Italiani, comincia ad essere travolta da vicende storiche e sociali di eccezionale portata.
Infatti, dopo l’8 settembre 1943, mentre l’esercito si dissolve e nasce la Resistenza o Guerra partigiana, nel Nord, s’insedia la Repubblica Sociale Italiana; mentre coagulano un po’ dovunque, e anche in Romagna, manifestazioni popolari contro l’abbattuto regime fascista. Si riorganizzano i partiti. E si inasprisce la guerra civile. Rino Molari completa la sua ‘vocazione politica’ aderendo alla Democrazia Cristiana.
In quel periodo molto speciale, in cui insegna a Riccione soggiornando durante la settimana nella pensione Alba, incontra la Resistenza della Valconca conoscendo tra gli altri l’ex segretario del Partito Popolare Giuseppe Babbi e monsignor Giovanni Montali, nativo di Santarcangelo ma riccionese di apostolato, sacerdote di grande spessore e già seguace dello ‘scomodo’ don Romolo Murri, fondatore della Democrazia Cristiana.
Rino Molari stabilisce, inoltre, in quegli anni, un solido legame con monsignor Montali, ‘uno dei maggiori rappresentanti di quella corrente innovatrice che aveva attraversato il clero romagnolo all’inizio del Novecento’.
Il Professore è inoltre straordinariamente aperto al confronto con esponenti d’altre culture, come Gianni Quondamatteo ( col quale, unitamente a monsignor Montali, condivide la passione per il dialetto e la caccia); e anche alla costante ricerca di punti di collaborazione ideologica e politica con l’obiettivo di superare la drammaticità del momento.
Intanto i tedeschi, per puntellare la Repubblica Sociale, scendono in forze dalle Alpi per occupare la Penisola. Per il professor Molari, questi, sono i giorni del rischio e del martirio. Accresce infatti i contatti con gli antifascisti. In solitaria, poi, solitamente in bici e a volte travestito da prete, distribuisce la stampa clandestina. Il suo contributo risulta decisivo anche nella fondazione di diversi CLN a Santarcangelo e comuni limitrofi; così come nel trovare un adeguato rifugio ai ricercati politici e razziali.
Molari ha contatti, tra gli altri, con il colonnello Tolloy, forlivese, e con le formazioni di montagna, tanto che viene indicato come ‘ membro non combattente’ della VIII Brigata Garibaldi. Tramite questi canali viene tra l’altro a conoscenza dell’eccidio di Fragheto. La sua, però, è una presenza che comincia ad essere notata dalla pubblica sicurezza fascista. Ad Americo Matassoni confida infatti di ‘sentirsi in pericolo’ e di essere spesso ‘seguito da sconosciuti’.
Matassoni gli offre di restare nella sua casa a Savignano; ma Rino, poco prima di mezzanotte, lascia il rifugio e “attraversando da solo orti e giardini con la sua bicicletta, raggiunge infine (con probabilità) la casa dei genitori a Santarcangelo”. Sono queste, per lui, le ultime ore di libertà. Perché, come un lampo, scattano in rapida sequenza l’arresto ( a Riccione), la detenzione e perfino la tortura. Certamente non ‘parla’, di sicuro non ‘tradisce’ amici e organizzazioni.
Intanto i nazifascisti completano una pesante offensiva in montagna contro l’VIII Garibaldi, e attivano vaste retate in pianura. Qualcuno ha raccontato che, prima dell’arresto, Molari fosse riuscito a consegnare all’amico Alfonso Giorgetti ( rappresentante Dc nel CLN di Santarcangelo) qualche pacco di volantini, passati poi in parte anche a Tonino Guerra; dicono altresì che all’origine dell’arresto ci sia stata la ‘soffiata’ di un collaborazionista ( di cui Rino ha avuto la sventura di fidarsi) arruolato nella milizia repubblichina e noto con il nome di capitano Rossi. Dopo l’arresto Molari resta per una notta nella caserma di Santarcangelo. Successivamente è trasferito a San Giovanni in Monte, a Bologna, il carcere gestito dalle SS. L’arresto di Rino Molari lascia molti nello stupore, padre compreso, che nulla aveva mai saputo della sua attività clandestina. La moglie Eva, nonostante i rischi, va spesso a trovarlo in carcere. Lui la rasserena dicendole “di stare tranquilla, perché non ha commesso nulla di grave”. Alcuni tentativi da parte partigiana, tra il maggio e il giugno del 1944, per ‘strapparlo’ al carcere vanno a vuoto. Da Bologna Rino Molari è condotto a Fossoli.
La sera dell’11 luglio un gruppo di 71 internati vengono avviati alla baracca numero 11. All’alba del giorno seguente, dopo essere stati invitati a scrivere lettere ai famigliari, i detenuti ( tranne due) vengono fatti salire su degli autocarri. Che invece di dirigersi a Verona dirottano verso Carpi. Tre/quattro chilometri appena, poi i camion si arrestano in un luogo abbastanza vicino all’abitato di Fossoli.
I 69 detenuti vengono fatti entrare in un cadente edificio isolato, il vecchio tiro a segno di Cibeno, dove li attende una fossa lunga e stretta scavata di fresco.
Un ufficiale tedesco completa la ‘farsa’ leggendo la condanna a morte per rappresaglia e, alle cinque, i prigionieri vengono passati tutti per le armi. Qualcuno sostiene in coppia, con colpi alla nuca. Solo il 17/18 maggio del 1945 le salme vengono riesumate per il riconoscimento. I resti risultano ammucchiati, uno accanto all’altro, con un po’ di terra per ogni strato di cadaveri. Al professor Molari tocca il destino d’essere riconosciuto dalla moglie Eva e dal fratello Attilio grazie ad una maglia, un orologio, alcune banconote e, più d’ogni altra cosa, da un foto del piccolo Gabriele.
Di questi intrecci personali all’interno della grande storia, al contempo lontani e vicini assieme, Gabriele, probabilmente, ne è venuto a conoscenza in età matura. Facile è immaginare che le abbia apprese, affranto, inumidendo l’abituale sguardo chiaro e trasparente, straordinariamente simile a quello del padre. Sguardi, l’uno e l’altro, privi d’ombre. Sguardi capaci, entrambi, per spiritualità e umanità, di ‘accendere’ senza remora alcuna la più profonda, autentica e condivisa avversione contro ogni forma di ‘prevaricazione’ e di ‘barbarie’.
Roberto Vannoni