Santarcangelo d/R. Il mistero degli ipogei tufacei. Ripostigli o anche una storia e degli usi molto antichi?

E’ dall’incontro del 31 marzo 2007 tenuto a Fermo, che Italia Nostra lavora al progetto ‘Percorsi sotterranei adriatici’. Iniziativa, questa, dovuta alla proficua collaborazione tra Italia Nostra, Archeoclub d’Italia e Cai, unitamente alle numerose e sempre disponibili associazioni locali, quali le Pro Loco ed Enti similari. L’idea è importante e stimolante. Intanto, perché spinge le diverse realtà ad uscire dai ristretti ambiti locali per diventare parte di un circuito con maggiori possibilità di incidere e completare le fasi di elaborazione, presentazione e valorizzazione dei singoli progetti.
Tra l’altro, l’ultimo incontro sul progetto ‘Percorsi sotterranei adriatici’ si è tenuto nei giorni 27/28 settembre a Santarcangelo. Non a caso. Visto che la città è fortemente ‘segnata’ dalla presenza di grotte tufacee disseminate da secoli e per molti chilometri sotto l’originario colle Giove. L’argomento grotte a Santarcangelo è ricorrente. Studi, anche recenti, hanno cercato di accendere la luce su quegli ‘arcani cunicoli a fogge diverse’. Lodevolmente, infatti, e senza eliminare del tutto antiche domande ( e dubbi) che restano assai diffusi tra la gente , al di là dei ( cosiddetti) risultati scientifici. Del resto, non è difficile capirne il perchè. Nell’ultima guerra, ad esempio, buona parte della popolazione urbana trovò rifugio nelle grotte. E questo ha ‘ rinsaldato’ affetti, legami e convinzioni smarriti lungo i secoli precedenti. E ora riemersi.
“ Entrammo in grotta – ricorda una testimone – il giorno di San Pietro. Quel giorno le bombe e i mitragliamenti si susseguirono per più di tredici ore!”.
“ La vita in grotta- aggiunge un’altra testimone- non era per nulla agevole. Fu nel finire dell’agosto 1944, che i cunicoli si riempirono di gente: parenti, amici, conoscenti e anche sfollati dalla vicina campagna o dalle città limitrofe. I parenti che giungevano dalla campagna recavano con loro provviste vitali, soprattutto di grano e formaggio. Ricordo l’odore intenso dell’aceto, che mia madre usava per proteggerci. E ricordo anche il fumo acre che sprigionava dai lumi di petrolio impregnando l’aria, molto umida della grotta. Dormivamo su materassi, con coperte, tre o quattro per nicchia. In un clima di grande sobrietà e solidarietà”.
“ Del giorno della Liberazione - completa il racconto un ulteriore testimone – ricordo il pane a cassetta, bianchissimo, che gli Alleati distribuirono alla gente. Mia madre ed io restammo rifugiate in grotta fino ai primi di novembre, perché nel frattempo avevano cominciato a piovere granate tedesche dalla linea del fronte fermo a Savignano. Ottobre e novembre furono un incubo. A causa anche dei bombardamenti Alleati, che colpirono in pieno Rimini e di rimando anche Santarcangelo”.
Passato il fronte, la vita riprese il suo corso normale. Non tornò subito però l’allegria tipica di queste popolazioni; e il riflesso si allungò per qualche anno ancora. La dura e lunga esperienza aveva marcato ‘anime e corpi’ nel profondo. Ebbene, a chi ha ‘condiviso’ l’enigma grotte per mesi, con tutti i suoi recessi e misteri, non è facile imporre quella che si pretenderebbe una ‘verità storica’ data per inconfutabile. Ovvero la conclusione scientifica, abbastanza recente, che ‘declassificherebbe’ le grotte a banali ‘ ripostigli domestici’ o luoghi di ‘vinificazione e conservazione dei vini’.
Allora, donde sta la verità?
Oltre a Santarcangelo, sono diversi i centri tra Marche e Romagna marcati dalla ‘presenza di grotte e gallerie sotterranee’. Di ipogei infatti ne sono stati scavati un po’ dovunque, in pianura o in collina, nel tufo o nell’argilla. Alcuni sono stati rivestiti in laterizio, per ‘incamiciare’ i terreni friabili; mentre altri sono rimasti ‘nudi’ , o meglio, direttamente intagliati nell’arenaria.
Si tratta in genere di ‘cunicoli’ abbastanza lunghi e ripidi, con aperture laterali a nicchie e a bracci allungati, a loro volta aprentesi in ulteriori nicchie. Le tipologie restano varie. A Cattolica, ad esempio, sono documentate una quindicina di gallerie, a tutt’oggi parzialmente visitabili.
Gallerie sotterranee dalle ‘archietture suggestive e prestigiose’ sono presenti anche a Gradara, S.Martino di Saltara e Covignano, quest’ultime aggiunte di recente e ‘scavate’ prevalentemente nell’arenaria. Anche queste architetture, più o meno elaborate, più o meno originali, più o meno simili a quelle santarcangiolesi, hanno alimentato ipotesi fantasiose, di vario utilizzo, che va dall’uso pratico quotidiano a non improbabili ‘ misteriche forme di ritualità’.
Con la ricerca qui siamo fermi. Per Santarcangelo, invece, eliminando ogni dubbio, si esclude il tutto e si parla soltanto di ipogei legati ‘ a singole unità immobiliari, pubbliche o private, di cui costituivano ( e costituiscono) per lo più ( a partire dal XVI secolo inoltrato) la cantina o il magazzino’.
Il territorio santarcangiolese è caratterizzato da un’ultima appendice dell’Appennino settentrionale, abbracciata dalla pianura alluvionale che Uso e Marecchia hanno formato nei periodi geologici più recenti ( Pleistocene-Olocene). Il colle Giove, su cui è sorto l’antico centro urbano, quello che la gente chiama Contrade, è costituito da sedimenti marini, ovvero da ‘depositi limo-argillosi, sabbiosi e ghiaiosi’ accumulati sul fondo del mare nel Pliocene, prima che il sollevamento dell’Appennino provocasse l’emersione dell’intera area. Gli ipogei ( o grotte) offrono, quindi, sul versante geologico, l’unica possibilità di osservazione dei sedimenti di cui il colle di Santarcangelo è costituito, svelandone il lungo cammino. Caratteristica qui è ‘l’originaria morfologia a terrazzi’.
Se si conteggiano le cavità con ingresso alla stessa quota ( e che è esatto chiamare ipogei piuttosto che grotte, in quanto di derivazione non vulcanica) si scopre un numero elevato proprio ‘in corrispondenza dei pianori degli antichi terrazzamenti’. E’ dunque in un contesto remoto, complesso, ma anche scarsamente analizzato che si colloca l’enigma ipogei ( o grotte) di Santarcangelo.
La prima documentazione storica delle grotte clementine risale ‘solo’ al 1496. Prima di questa data non esistono fonti, Codice Bavaro compreso. Inizialmente vennero chiamate in modo curioso, ovvero, ‘volta, caverna, spelonca, tana’.
E’ solo nel 1701 che comparve il termine ‘grotta’. Da questo momento in poi le attestazioni documentarie si succedono numerose. Attendibili. Quantificabili.
Nel 1753, in contrada dei Signori, nella ‘grotta’ di Casa Balbini, si contavano 13 botti piene di vino, 7 botti vuote, 2 semipiene; mentre nel ‘grottino’ erano state comodamente collocate 46 bottiglie, in ‘cantina’ 10 botti, nella ‘tinaccia’ contigua 11 ‘tinacci’. Qualche anno dopo, nel 1763, nella ‘grotta’ di Antonio Baldini furono inventariate 6 botti, 2 botticini, un ‘tinazzo’, 2 ‘tinelle’, un ‘barile’, 2 tavolati per i fiaschi. Analoghe, preziose documentazioni, si hanno in modi e tempi diversi per le ‘grotte’ di Casa Denzi ( 1763), Casa Pasqui ( 1794), Casa Franceschi (1807), Casa Zavagli ( 1823) e così via.
Di fronte ad una così concorde messe di attestazioni non può che esserci una conclusione. Una soltanto. Ovvero che il ricorso massiccio alla cantinificazione c’è stato, sicuro, ma solo dal secolo XVII al XIX per conservare al fresco copiosi depositi di buon vino. Il rilievo sistematico degli ipogei tufacei ( grotte) di Santarcangelo è iniziato nel 1987, per concludersi nel 1994.
Nella circostanza sono state individuate in modo completo 130 grotte, da aggiungersi ad un ulteriore ventina ‘tamponate’ e/o ‘crollate’ e quindi non più accessibili. Tre, infine, risultano le loro tipologie planimetriche: configurazione ‘a sala, con una forma geometrica vicina al parallelepipedo’; configurazione ‘ a galleria a pettine, larga m 1,20 e alta m 2,00’; configurazione monumentale ‘formate da gallerie a pettine, che confluiscono in sale ( e basilichette) di forma e dimensioni diverse’.
Questi gli aggiornamenti. Che sembrano ‘ridimensionare’ le ( cosiddette) certezze scientifiche, recando nuovo credito a quanto da tempo ‘dubita’ la gente. In particolare quella gente che ha vissuto le ‘grotte, gomito a gomito’, in tempo di guerra. Per mesi. Scavando nei loro recessi. E rivalutando antiche convinzioni. Ripostigli, sì, forse, e comunque non soltanto.
Convinzioni, dubbi, questi, ben rappresentati fin qualche decennio fa dal cav. Luigi Renato Pedretti, il padre del grande Nino.
Raccontava Luigi Renato Pedretti: “ Visitavo, nel 1936, quegli oscuri ambulacri illuminati a sezione dalla tenua luce d’una gocciolante candela di stearica, sfidando un intreccio di ragnatele, svegliando i pipistrelli che a gruppi, con la testa in giù e le zampette attaccate alle crociere delle volte, sorpresi, riprendevano il loro volo pazzesco, sfiorandomi… Il silenzio qui regna sovrano, giacchè un vuoto di tomba ti dà l’impressione che il suo abitatore sia fuggito da qualche parte. Continuando però ad aleggiare lì, tutt’attorno, tra una nicchia e l’altra, provocando in tal maniera un tremito di paura e di segreta angoscia”.
Una immersione, la sua, nell’arcano. Custodito nelle viscere del colle Giove. E che il Cavaliere cercò di squarciare con ogni mezzo, chiamando a consulto perfino grandi esperti italiani e olandesi. “ Di certo – confermò dopo visita del 1949 l’archeologo campano Amedeo Maiuri, delegato dal Ministero- , si tratta di un piccolo monte Athos con basilichette rupestri che richiamano al rito orientale di San Basilio’.
Basilichette e, perché no?, fors’anche qualcosa di ancor più antico, di pagano addirittura, almeno negli ‘abbozzi’ originari ormai irrecuperabili. Su quanto sosteneva il cav. Pedretti avremo, tuttavia, modo di tornare. Troppo originali, troppo audaci ed appassionanti sono le sue tesi. Al momento ci accontentiamo di attestarci sull’attualità. Dove ‘oggettività della scienza’ e ‘soggettività della passione’ si sfidano da sponde opposte. Con poche certezze e tanti dubbi. E una riposta, amabile, speranza : chissà se, con qualche ‘carta’ in più tra le mani, magari in men che non si dica, non abbia ‘ l’intuito’ ’ in futuro a prevalere ‘sulla razionalità’?
Nella foto, visita Italia nostra alle Grotte.
( Si ringrazia l’arch. Massimo Bottini, consigliere nazionale di Italia Nostra).
Roberto Vannoni