Santarcangelo d/R. Aggiornamenti e misteri sulla suggestiva pieve di San Michele Arcangelo in Acerboli.

Santarcangelo d/R. Aggiornamenti e misteri sulla suggestiva pieve di San Michele Arcangelo in Acerboli.
Pieve a luglio

SANTARCANGELO d/R. E’ solo dopo l’atteso ‘ritorno’ del giorno  di San Benedetto, che le  chiome abbrunate alla sommità dei tronchi alti e sofferenti  che proteggono la pieve di San Michele Arcangelo in Acerboli si riempiono delle mille ‘voci’ di rondine.
In vero nel numero calanti in questi ultimi anni, eppure sempre ‘garrule’ e ‘festose’, ad ogni ritorno, quali spiriti liberi senza  tempo, soprattutto al tramonto del sole estivo sulla ‘ lunga linea blu’  che, nello sfondo, da sempre separa  terra e cielo. Questo è anche uno dei frequenti  momenti di fascino che emana dal millenario edificio sacro dedicato all’angelo guerriero, e che ha finito col passare  il nome del suo protettore  al popoloso  centro urbano che gli è lievitato attorno. E non solo.
Infatti la pieve di San Michele Arcangelo è anche un rebus, sempre fascinoso,  magari un tantino più intricato d’altri, e non tanto per  particolari difficoltà ricognitive quanto per alcune ‘questioni che restano sospese’ e tutte legate  alle sue inequivocabili ‘peculiarità’. Mai in fotocopia. Da cogliere nell’attimo giusto. Ma forse è meglio spiegarsi.
Allo studio della  Pieve s’è dedicato nel tempo un gran numero di storici e ricercatori: Gerla, Verzone, Mazzotti, la Bull Simonsen, Franceschini, Bettini, Perogalli, Curradi e, non da ultimo, il prof. Eugenio Russo.
E’ infatti  da quest’ultimo studioso che sono giunti,  già nell’83, ‘spunti e dritte’  molto importanti ma che restando  nelle mani di pochi hanno finito con l’essere dimenticati o ignorati.  Da tutti, o quasi. Capita.

E’ comunque al  prof. Russo che si deve il definitivo inquadramento della Pieve  nell’ambito dell’architettura bizantino-ravennate e, in senso più ampio, ‘nella sua sfera di prototipi e di centri d’influenza ed espansione’.

Il professor Russo  ha risolto così  l’annoso contenzioso sulla sua origine. “ Credo che ci siano validi motivi – dedusse  – per assegnare San Michele in Acerboli agli anni immediatamente successivi alla prima metà del VI secolo, ma ancora in età giustinianea, e dunque per Ravenna all’epoca dell’arcivescovo Agnello ( 556/569) o, in estrema ipotesi, al precedente episcopato, visto che dopo un attento esame strutturale delle chiese ravennati si può chiaramente affermare che dal punto di vista della tecnica muraria la Pieve  appare anteriore a quella parte di S.Agata costruita al tempo di Giustiniano”.

Alla seconda metà del VI secolo va riferita inoltre la dedica a S.Michele Arcangelo, un culto dalle radici orientali, portato e diffuso in Occidente dai Bizantini. Chi sosta alla Pieve non può non chiedersi se essa sia sempre stata tale e quale a quel che oggi appare. Oppure se sia stata manipolata, quando e come.  Peggiorandola o migliorandola. Anche su questo versante, il prof. Russo ha fornito un contributo decisivo. “ Osservando un disegno conservato presso la Sopraintendenza di Ravenna, firmato Corsini e datato 1911, dunque un anno prima dei lavori del 1912, veniamo a conoscenza – annunciò   lo studioso – della fronte e del fianco sinistro della chiesa.

La fronte, con al centro il più tardo campanile, è quasi completamente nascosta da due casette appoggiantisi ai lati del campanile e alla facciata del San Michele. Nel fianco sinistro, quasi al centro e in basso, è aperta una porta moderna con arco a tutto sesto, in seguito murata, mentre delle otto finestre superiori soltanto tre risultano aperte, e di forma rettangolare, entro le originarie a tutto sesto”.

Un altro disegno, sempre a firma del Corsini e datato ottobre 1911,  evidenzia quali fossero le intenzioni dei restauratori dell’antica Pieve, già a quel tempo ampiamente manomessa e decadente. Nell’immagine si notano  l’eliminazione della casupola alla sinistra del campanile e la riapertura  delle otto finestre antiche. Obiettivi, questi,  non pienamente raggiunti dai ‘restauratori’ anche perché alla prova dei fatti  si provvide ad eliminare soltanto la porta al centro del fianco e il manufatto a ridosso al campanile, tralasciando  le finestre con l’inattesa riapertura della settima.

Altri determinanti interventi furono eseguiti nel 1922 ( dove vennero murate le due aperture rettangolari nella seconda e quarta finestra antica con riapertura della prima e della terza, fino a quel momento completamente occluse)  e, infine, nel 1966/1968. Quest’ultimo ‘sforzo’ consentì tra l’altro di “risarcire i tanti guasti alle murature, ripristinare la quota primitiva all’interno e riaprire tutte le finestre sui due fianchi e le tre originali dell’abside”.
In buona sostanza fu in quella circostanza che si ottenne  la grande aula adibita al normale culto religioso, non senza il pagamento d’un prezzo  piuttosto alto visto che con quell’operazione si è proceduto a cancellare “ ogni traccia che fosse posteriore  all’epoca della Pieve, mentre sarebbe risultato assai più ripagante lo studio – lamentò  il prof. Russo - di un sistema di salvaguardia della zona archeologica, con la dovuta conservazione della quota pavimentale risalente all’epoca di costruzione della cripta”.

Altre ragioni  per approfondire il discorso sulla  Pieve non s’esauriscono di certo qui.  Intanto per verificare certe importanti  analogie  architettoniche con altri edifici religiosi.  Visto che, da un punto di vista murario,  il manufatto risulta curiosamente simile a quello di altri importanti luoghi di culto ravennati dello stesso periodo: San Michele in Africisco ( anno 545), San Vitale ( 547), Sant’Apollinare in Classe ( 549) e la parte absidale di Sant’Agata.
L’edificio sacro santarcangiolese  mostra  semmai una evidente analogia costruttiva  con la pieve di San Martino in Barisano, nel Forlivese, dalla quale è possibile (ri)farsi una idea dei resti di mosaici pavimentali praticati in quelle costruzioni, e che a Santarcangelo per diversi motivi risultano talmente insufficienti da non potersi ricostruire.

Lo ‘scorcio’ della Pieve che tuttora  alimenta accesi contenziosi, è quello riguardante lo spazio absidale.  Eccessivamente ampio, come sottolineò il prof. Russo, e non solo.

Perché è da quella parte che nasce  il  fondato sospetto che “ il particolare sia stato ricalcato su un precedente edificio di culto, inglobato nella nuova costruzione a cominciare dalla  parte inferiore”.  E  se è vero che l’attuale semicalotta si può fare risalire all’epoca di Paolo VI ( 1605/1621), occorre non dimenticare  che è proprio questo spazio “ ad  avere subito non poche manomissioni nel corso del tempo”. Manomissioni che cambiano le credenze.  Non insignificanti. Perché è  proprio in questi ambiti  che potrebbero sopravvivere  le tracce d’un remoto e mai documentato  tempio pagano.

 

Luigi Renato Pedretti, come al solito, sul tema delle origini pagane della Pieve, non nutriva dubbi in proposito. Scrisse: “ Il pavimento verso l’abside, rimbomba …  testimoniando così la presenza di un sottostante ambiente, che potrebbe essere stato quello d’un minuscolo tempio dedicato al dio Mitra. Divinità portata dall’ Oriente e che – commentò ancora il Cavaliere - rivive  ( all’interno dell’edificio ) nei più leggeri particolari”; e benchè sia stata volutamente e definitivamente  sepolta da “ un nuovo adattamento spirituale, come sempre è  necessario per affrontare la vita nell’attesa della morte”.

Se si consulta la pianta della Pieve, non ci si può esimere dal notare che la facciata è posta obliquamente, o meglio, ‘sbilenca da sinistra verso destra’. Curiosamente.

Segno di trascuratezza ? Di casualità?  Nemmeno per sogno, perchè tutto quanto è stato ‘progettato’ e ‘creato’ dall’ignoto architetto ( probabilmente) approdato in Romagna dalla lontana Costantinopoli,  non lascia margine alcuno all’improvvisazione. Nella strutturazione, negli effetti e nella cura dei dettagli. A completare con l’ineffabile gioco della luce, fuori e dentro l’edificio, un gioco che lascia interdetti e che alimenta, ad ogni mutare di stagione, ad ogni ora, ad ogni attimo, il richiamo incredibile esercitato da questo manufatto sacro,  privilegiato – oggi più che ieri –  dai giovani sposi.

Tra l’altro la ‘forzatura’ d’una facciata obliqua per uno spazio piuttosto limitato a navata unica non dovette risultare operazione scontata. Occorse dell’ingegno, dell’inventiva, oltre che una straordinaria sensibilità spaziale. Intanto, per evitare che il fedele si rendesse conto dell’accorgimento posto in essere; e poi, per scandire in maniera adeguata, con  tempestività di tempi e di modi, il rapporto  ‘spazio e luce’ sulle fiancate e sulla conca absidale, con intenti non ( solo) decorativi. Ma l’effetto più raffinato e suggestivo l’ anonimo architetto greco lo raggiunse nella disposizione e nella conformazione delle finestre.
Che pose in alto. A due a due tra le lesene, accoppiandole e accostandole  alla lesena interna nei due settori estremi della parete, con criteri differenziati sui due fianchi. Al finestrato,  probabilmente  sul modello della chiesa di San Giovanni di Studios che era  tra le più importanti della capitale d’Oriente, diede la ‘fantasia’ e il ‘compito’ d’illuminare l’aula con combinazioni luminose suggestivamente lievitate.

Combinazioni che ben ‘colpiscono’ il ‘piano del fedele’ e soprattutto la ‘parete di fondo’, “mentre altre sottili sfumature di luci e di penombre contraddistinguono l’abside, in cui spiccano le due coperture centrali”. Infatti è sull’abside che l’ignoto  costruttore  greco concentrò “ il punto di più raffinata modulazione della luce”. Con accostamenti e variazioni  inesauribili. Tanto che perfino al grande studioso, diventò difficile non tradire un  suo intimo e commosso  coinvolgimento.

Le finestre dell’aula‘ammirò’ il prof. Russocon il loro gioco incrociato di luci rischiarano bene anche la parete absidale più vicina alla parete di fondo, coi muri paralleli, pure in alto, mentre una leggera penombra comincia ad avvolgere la parete là dove essa s’incurva, tanto in alto, nel catino, quanto e più nettamente in basso, dov’è stata adoperata l’abside più antica, mentre al centro tal effetto è vivacemente spezzato dalla luce concentrata delle tre finestre mediane”.
Vecchie e nuove verità. Dilemmi dello spirito e della materia.  E  combinazioni di luce. Che in questo millenario manufatto, edificato dall’ingegno d’un greco  con umile creta, voluto e pensato per diffondere il nuovo verbo cristiano,  manomesso più volte e più volte sopravvissuto, ci si augura di potere  ammirare  ancora per molto.

Attraverso quale altro, utile intervento? Imminente? Oppure cominciando ad inserirlo in una sorta di parco archeologico che andrebbe ad aggiungere un altro prezioso gioiello alla variegata offerta di storia e cultura di questa città ? Al momento queste domande non hanno risposte. Qualcosa però occorrerà fare. Il discorso resta aperto. Ad un certo punto del suo secolare cammino la facciata dell’antica Pieve è stata inopinatamente ‘coperta’ da una torre campanaria postuma, rimediata con materiale vario d’epoche diverse e tuttora incompiuta.

Un elemento architettonico che, oggi,  in via del tutto teorica,  si potrebbe abbattere rischiando però il crollo della facciata stessa, segnata da più crepe.

Teorica, anche perchè  così facendo s’andrebbero a disperdere quelle tante ‘pietre variamente intinte nei secoli’ disseminate da un immaginario  Pollicino del tempo lungo in quel suo massiccio corpo. Sì, perché, a ben datarle, le ‘pietre’ del campanile,   sono null’altro che le  ‘tracce’ ancora visibili dei popoli che l’anno frequentata:  Goti, Longobardi, Franchi, Bizantini e altri, altri,  ancora. Pagine non vane di storia. La loro, la nostra storia.

 

 

Roberto Vannoni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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