Santarcangelo d/R. Fotografi: raccogliere e salvare immagini e valori della ‘casa del tempo.

SANTARCANGELO d/R. Raccogliere e salvare immagini e valori della ‘casa del tempo’. “ Poche città romagnole possono vantare un patrimonio fotografico pari per quantità e qualità a quello accumulato da Santarcangelo” sottolinea con una punta di orgoglio la contro copertina di ‘Santarcangelo di Romagna e la sua gente’, libro fotografico con presentazione di Lorenzo Bedeschi e testi di Dino Mengozzi realizzato ( in particolare) grazie all’impegno di Mario Benedettini, ricercatore innamorato della sua città, e alla disponibilità di Giorgio Sapignoli, editore santarcangiolese.
Ed è proprio per merito di questo corposo volume didascalico-fotografico, finito di stampare nel dicembre 1985, e andato a ruba nei giorni successivi, che è possibile tracciare un esauriente excursus dei trascorsi otto/novecenteschi santarcangiolesi. Gli ‘scatti fotografici disponibili’ sono innumerevoli e forniscono una esauriente visione in bianco-nero della vita cittadina: privacy, commercio, fiere e banche, costume; ma anche vita politico-amministrativa, religiosità, gioventù, sport e tempo libero; con l’aggiunta, nella parte finale, di una serie di sguardi concentrati sugli antichi nuclei abitativi, con le loro trasformazioni, i loro monumenti, i loro punti di snodo e di ritrovo e così via. ‘Santarcangelo di Romagna e la sua gente’ è stato uno di quei testi che, come s’usa dire oggi, ha lasciato il segno. Merito meritato dei curatori e dell’editore; merito meritato, inoltre, come si accennava, dello sterminato patrimonio fotografico custodito nel ventre dalla Città. E accumulato nel tempo, qua e là, da soggetti diversi e fin dai primi albori della fotografia.
Nel 1863, Julie Margaret Cameron, poco dopo avere ricevuto in regalo dalla figlia una ‘apparecchiatura completa per la fotografia’ divenne, lei, la ‘madre fondatrice’ dell’arte fotografica. Caso volle che alla fine dello stesso decennio, un’altra donna, Lucrezia, santarcangiolese, moglie di Elia Gallavotti archivista comunale, in un centro di provincia avviasse uno studio fotografico specializzatosi in breve in ritratti formato ‘carte da visita’ per signore e signorine, gentiluomini e non, bimbi e famigliole al completo, montati su eleganti cartoncini con la stampigliatura: ‘ Lucrezia Gallavotti, fotografa in Santarcangelo’.
La vicenda di Lucrezia Gallavotti e delle sue figlie mostra connotati interessanti e, per molti versi, straordinari. Di certo da porre sullo stesso piano di quelli d’altri ‘fotografi’ cittadini, come Francesco Giovanelli ( 1859-1923) che operò in città dal 1870 al primo decennio del Novecento; Augusto De Girolami ( 1889-1972), che scattò numerose ‘testimonianze’ dagli anni Venti agli anni Sessanta; Giulio Giulio senior, padre di Giulio junior, clarinettista e avviato fotografo. Tra gli altri, i Turci operarono a Santarcangelo in ambiti diversi per molti decenni: negli anni Venti, ad esempio, Giulio Turci senior in società con Caio Carlini, inaugurò la sala ‘Eden’, ovvero il primo, mitico, cinematografo cittadino. Chiude la lista dei fotografi santarcangiolesi il ‘grande’ Umberto Macrelli, che ‘ cercò di accumulare, salvare e valorizzare, una mole incredibile di immagini’ a partire dagli anni Sessanta fin alla sua morte.
Tra le diverse biografie santarcangiolesi due s’impongono in maniera emblematica: quelle di Lucrezia Gallavotti e figlie e di Umberto Macrelli.
Di Lucrezia, nata Galliani nel 1822, e registrata all’anagrafe come possidente, ci sono giunte poche notizie. Di lei sopravvive ( solo parte ) del suo ( variegato ) impegno professionale. Avviato in un ‘contesto’ familiare abbastanza ‘atipico’ e insolitamente ‘predisposto’ a praticare la ‘magica arte’ del Daguerre. Formati, tecniche, uso professionale della camera oscura, composizione disinvolta dei soggetti fanno pensare che Lucrezia, fin dal 1865, abbia svolto ( a dispetto dei pregiudizi e di difficoltà non semplici) una consistente attività fotografica in Santarcangelo, Rimini e finanche in Savignano. In quella data Lucrezia, 43enne, risulta madre di tre figlie: Prima, Seconda e Pierina le quali, negli anni successivi, daranno vita allo studio ‘Sorelle Gallavotti, fotografe in Santarcangelo’.
Delle tre sorelle, Pierina ( maestra elementare) e Prima, si sposeranno al più presto abbondonando il paese. Dove rimase per un certo periodo Seconda ( 1857/1934) che però, una volta maritata anche lei maritata e con tre figli, decise di lasciare abbastanza presto il laboratorio. Di Seconda resta una manciata di foto ( probabilmente) anteriori al 1890, e quasi tutte ritratti e scorci cittadini. In pratica, le Gallavotti, nel breve volgere di due generazioni, esaurirono il loro protagonismo ‘fotografico-artistico’ ma tanto bastò per consentirle di lasciare, a buon diritto, una traccia indelebile nella storia della fotografia ( non solo ) cittadina.
Il tempo, poi, ha disperso gran parte del loro lavoro. Ferruccio Farina, cercando di tracciarne in una sua ricerca il computo esatto, garantisce che delle Gallavotti sono ‘sopravissute’ circa 90 foto, di cui 25 con il marchio di Lucrezia, 7 ( attribuibili) alle sorelle Gallavotti e altre 6/7 a Seconda; mentre per le restanti 50 non abbiamo la ‘firma’ ( anche se almeno 38 scatti potrebbero attribuirsi con qualche fondatezza a Lucrezia).
Soffermarsi su quelle foto, con le loro pose raffinate, logorate dal tempo, ma ‘calde’ quasi fossero appena uscite dalla camera oscura, è cogliere il soffio vitale della ‘casa del tempo’. Segnato dall’ orgoglio ( tipico) santarcangiolese per le cose e le persone del proprio paese. A Seconda ad esempio si devono un fronte e lato altrimenti introvabili della distrutto complesso di San Francesco, che per cinque secoli ( e fin alla seconda parte dell’Ottocento) ha dominato ( con la sua chiesa ricolma di suppellettili e opere d’arte) piazza Ganganelli. Un ‘grumo’ di fede, arte e architettura oggi lontano e che, proprio grazie a quelle immagini, quasi fossero una sorta di fantomatica chimera, continua ad ’aleggiare’ sul grande e rivoluzionario spazio pubblico cittadino dedicato al papa che ‘ardì sopprimere’ la ( potente) Compagnia di Gesù.
Nel comune di Santarcangelo esistono tuttora istituzioni e privati con depositati preziosi fondi fotografici: il ‘Paolo Monti’, ad esempio, dovuto ad un fotografo piemontese che operò a Santarcangelo negli anni Sessanta/Settanta dell’Ottocento; il ‘De Girolami’, maestro elementare, che si dedicò con grande cura e continuità alla tecnica fotografica nel secondo decennio del Novecento; il ‘Paul Scheuermeier’, uno studioso straniero presente in Romagna fra il 1923/1931 e autore ( tra l’altro) di una originale ricerca linguistico-etnografica condotta attraverso l’uso della fotografia; l’Archivio Comunale, infine, con circa 4000 fotografie in bianco e nero e a colori, unitamente all’enciclopedica ed inestimabile donazione ‘Umberto Macrelli’.
Nella galleria dei fotografi santarcangiolesi Umberto Macrelli è citato ‘ da ultimo’ perché la sua collezione è stata affidata solo di recente ai Musei Comunali. Ma la quantità e la qualità dei materiali è senza confronti, contando circa 12mila pezzi complessivi, fra stampe e negativi, testimoni tutti della complessità della ‘casa del tempo’ clementina.
Macrelli ha prodotto in proprio ma ha anche raccolto foto d’altri che riproduceva, salvandole e valorizzandole, in qualche sua periodica mostra-evento. Nella sua immane opera, iniziata per diletto nel 1964 e durata fino alla morte, vien tracciato un arco di tempo lungo circa un secolo. Berto, come tutti lo chiamavano, era uno del Borgo. Abitava in un popolare edificio colorato a due piani che s’affacciava, sul davanti, in via Battisti e, sul retro, sulla Collegiata. Berto era stato per anni capo officina alla Marchino, la grande fabbrica di cemento tre chilometri a nord dalla città, sulla strada per il Poggio. Per lui il Borgo e le Contrade, pullulanti di gente d’ogni estrazione sociale, sono divenute col tempo una sorta di laboratorio socio-culturale da analizzare in ogni suo aspetto, anche quello meno significante, per non mandarlo disperso.
Buon per noi, e per quanti arriveranno, che l’abbia pensata così. Perché è, e sarà, proprio grazie al suo inesauribile album fotografico, che si può, e si potrà, smentire il poeta quando dice ‘ … Che abbiamo vissuto, che abbiamo toccato le strade, coi piedi che andavano allegri, non lo saprà nessuno … siamo stati sulla terrazza della vita finchè non sono arrivati gli altri’.
Berto attingeva documenti da ogni circostanza quotidiana: scorci d’intimità privata, ad esempio, con le famiglie e i singoli soggetti in posa; e poi i mestieri, le fiere e le innumerevoli attività lavorative ( come quelle degli scalpellini, di un parroco con il suo fattore, delle filatrici, di un ‘aburattatore’ cioè di un lavoratore dedicato alla selezione delle granaglie da seme…); ma anche gli artigiani, un selciatore, un caratteristico biroccio adibito a distributore di gazzose, i medici e gli infermieri del nosocomio locale stretti con orgoglio dai loro camici bianchi, un macellaio, un apicoltore, gli impolverati mietitori accanto alle frenetiche e rumorose trebbiatrici, uno spaccapietre e così via. Con l’integrazione, irrinunciabile per lui, dei tanti momenti collettivi più o meno rilevanti: il mercato, le nuove mode nell’abbigliamento ( soprattutto femminile), i giochi (innocenti) dei bambini, i crocchi anonimi ( e scuri) di gente; le prime auto, scintillanti, alcune giovani donne in bici, il treno, un ( insolito) dirigibile ( datato 1910) sul greto del Marecchia, le scolaresche, i gruppi scout e di azione cattolica, i saggi ginnici del Ventennio.
E ancora: il celebre Achille Franchini ( medico primario del reparto di Chirurgia locale), gruppi e sezioni di partito, studenti, vecchi antifascisti al bar e tant’altro.
Uno spazio apposito Berto l’ha lasciato alla religiosità e alla cultura locale: una processione per Sant’ Antonio, ad esempio, ma anche un gruppetto di giovani alla prima comunione, la celebre attrice Teresa Franchini, gruppi e singoli intellettuali, una squadra di calcio e una gita in moto, le ‘corna’ della Fiera appese all’Arco…
Praticamente si tratta di una serie infinita di ‘momenti di vita’, palpitanti ed ammonitrici allo stesso tempo. Berto non ‘tralasciava’ nulla del suo paese. Anche i dettagli apparentemente minori. Compresi i battacchi delle porte antiche. Il tutto, tra passato e presente. Una parte delle immagini, come detto, le sfornava direttamente, utilizzando materiale fotografico di prim’ordine; un’altra, invece, la rintracciava e la riproduceva. A sue spese.
Negli ultimi anni della sua attività, quando lo si cercava occorreva andarlo a scovare in qualche impensato l’anfratto di paese in cui s’era andato ad appostare. In ore diverse della giornata. Paziente. Attento. Con il suo berrettino a visiera e la sua reflex nera d’Oltrecortina a tracolla. Potendo, non voleva certo rinunciare ad immergersi nel mielato e lucente pulviscolo d’una mattinata di primavera alle Contrade; o nelle profondità dell’afa silenziosa e deserta che invadeva Borgo e Contrade in un pomeriggio estivo ; o con gli infiniti e misteriosi arabeschi d’una intensa nevicata sotto Natale, capace ‘come d’incanto di togliere un po’ dovunque la voce ai rumori’.
Con la segnalazione dei momenti collettivi Berto intendeva trattenere l’attenzione sui valori fondanti della società in cui era cresciuto. Valori senza tempo e da consegnare in dono a figli e nipoti. Berto, spentosi nel 1989, quando conversava esprimeva una interpretazione molto chiara del celebre ‘panta rei’ del filosofo greco. Tutto passa, è vero, diceva, e tuttavia qualcosa va trattenuto. Deve essere trattenuto. Perché il ‘sudato travaglio del passato’ possa servire a tenere ‘varchi sempre aperti d’umanità, integrazione e giustizia sociale’. Spontaneamente. Generosamente. Da una età all’altra.
Roberto Vannoni