Valmarecchia. La piccola e la grande storia. Intreccio che ha come protagonista Pietro Giovanni (Secondo) Re.

Valmarecchia. La piccola e la grande storia. Intreccio che ha come protagonista Pietro Giovanni (Secondo) Re.
Medagliere

UN EROE NORMALE.  Di ‘lui’ raccontava solo Eolo, scomparso  nel 1968. ‘Lui’ era suo padre, Pietro ( Secondo) Giovanni Re, piemontese, trasferito in Valmarecchia dal Vercellese, il quale  nel 1860 figurava arruolato nel regio 10° Reggimento di fanteria della brigata Regina nel Corpo d’armata che al comando del generale Cialdini sconfisse, a Castelfidardo, nelle Marche, un agguerrito contingente pontificio, aprendo così  ai piemontesi  il  ‘varco’  definitivo verso Teano, dove avvenne lo storico incontro tra il re Vittorio Emanuele II e Giuseppe Garibaldi, allora   fresco trionfatore nel Sud d’Italia sulle armate borboniche,  intenzionato inoltre ‘a sfidare’ la protezione militare francese sullo  Stato pontificio.
Mentre raccontava, poteva capitare che  Eolo tirasse fuori da una ‘tasca’ della  ‘madia’  un ‘ tricolore strappato’, unitamente ad un paio di certificati originali e a due o tre immagini fotografiche  in bianco e nero. La bandiera, secondo lui, era quella che suo padre, il fante Pietro Giovanni Re, aveva conservato come documento-ricordo di un suo gesto  durante una  fase cruenta dello scontro militare avvenuto alle pendici della cittadina marchigiana. Che cosa avesse ‘compiuto’ Pietro Giovanni Re in quella circostanza, in vero,  non lo si è mai esattamente saputo. Anche se vista la documentazione era  dato per scontato  che si fosse reso autore di un gesto di encomiabile audacia.

Un certificato originale, infatti, tuttora chiaramente leggibile, rilasciato in data 22 novembre 1860 dal Ministero della Guerra del Regno del Piemonte, spiega : “ S.M. il Re, in data 3 ottobre 1860, … ha conferito la medaglia in argento al valor militare, coll’annesso soprassoldo di lire 100 annue, al soldato Pietro Giovanni (Secondo) Re, del X Reggimento di fanteria, per il valore e il coraggio di cui fece prova nella battaglia di  Castelfidardo combattuta nelle Marche il 18 settembre 1860”.
La grande storia, si sa, non si cura che occasionalmente e marginalmente dei  gesti e  dei personaggi minori. Tutti destinati (più o meno ) a quell’oblio del tempo che più crudele non potrebbe essere. E non tanto perché ignora azioni e meriti importanti, spesso anche decisivi, ma soprattutto perché impedisce di cogliere quel ‘palpito vivo’ di una folla di protagonisti i quali, senza bagliori né clamori,  hanno ‘bruciato’ le loro esistenze al ‘ fuoco degli eventi’ con infinita generosità e dedizione. E se, oggi,  c’è una storiografia che tenta di  recuperare quegli ‘aspetti di contorno’, ‘ secondari’, non possiamo che condividerla, per un doveroso omaggio alla complessa verità dei fatti. Come, appunto, è nel nostro caso.

Il problema di Eolo – dicevamo – è sempre stato quello di reperire qualcosa di più esaustivo sulla gioventù del padre. Il quale,  non amando mai parlare di sé, del suo passato, aveva finito con l’alimentare perfino qualche innocente mistero.

Con un vicino di casa che gli chiese della famiglia d’origine, ad esempio, ma una volta, una volta soltanto, aprì un doloroso spiraglio su sua madre, che confessò di ‘avere perso’ in circostanze non precisate  quand’era ancora un fanciullo. Pietro Giovanni,  nato il 6 luglio 1837 a Casanova di Novara ( oggi Casanova Elvo),  in ‘diocesi vercellensi’ come indicato sull’estratto di matrimonio,  da Antonio Re e Demarchi Maria, sposò nel 1868 Elena Venerucci, mercatinese, figlia di Carlino Venerucci e Maria Docci, e (probabile)  cugina ‘buona’  di quel Giovanni Venerucci fucilato in Calabria con i fratelli Bandiera.

La coppia  ebbe numerosa prole, esattamente otto figli tra femmine e maschi,  per i quali scelse nomi ( forse ) suggeriti da reminescenze  scolastiche: Evaristo, Ermete, Evandro, Enea, Eugenia, Elisa, Esterina, Eolo. Indizio, questo, di studi classici, però svolti  in un collegio religioso o  militare.  Che Eolo aveva sperato più volte di  identificare, ma senza costrutto attendibile,   in quella  Accademia militare che aveva sede in via della Zecca, nel cuore di Torino, dove si entrava tra i nove e i dodici anni per ‘essere educati’ alle armi sotto la guida di tre rigorosi dicasteri: ecclesiastico, degli studi e militare. All’ Accademia militare  aveva studiato anche Cavour, il regista politico dell’Unità d’Italia.
I dilemma, comunque, restarono. Certo è che, pur giovanissimo,  Pietro Giovanni non rimase ai margini dell’ondata di passione risorgimentale che travolse un po’ tutta gioventù piemontese ( anche) piccolo / medio borghese e operaia del suo tempo.  E se Pietro Giovanni– secondo lo studio pubblicato 1990 da Danilo Re – non compare nell’elenco dei Mille, si  può solo ragionevolmente  supporre che, nel 1859, fosse finito nel corpo dei  Cacciatori delle Alpi, al comando di Giuseppe Garibaldi.
Nell’ ottobre/novembre  1859 fu di certo arruolato nella fanteria  piemontese  tanto che – e qui la documentazione diventa attendibile e definitiva – potè prendere parte, nel settembre del ’60, allo scontro di Castelfidardo dove meritò  la medaglia d’argento al valore militare.

Un successivo documento, firmato il 30 aprile 1865, certifica poi il suo passaggio nei Carabinieri reali,  dove  dal 1 novembre 1863 è  nominato  dapprima vice brigadiere e, poi, dal 16 settembre 1864, brigadiere. Su questi ‘transiti’ militareschi la documentazione pur risultando scarna è comunque molto chiara e interessante. “ Il Consiglio di Amministrazione della V Legione del corpo dei Carabinieri reali –  riporta infatti un certificato regio datato a Bologna il 30 aprile 1865 – dichiara che il brigadiere  a piedi Re Pietro (SecondoGiovanni, numero1324 di matricola, ha partecipato alla campagna 1860/1861 per l’Indipendenza e l’Unità d’Italia”.

Alla dichiarazione è allegata ‘una medaglia d’oro commemorativa con relativa fascetta’  che , Pietro Giovanni, unitamente a quella d’argento s’appuntava al petto nelle   rare manifestazioni pubbliche a cui  partecipò.

Pietro Giovanni aveva ottenuto  dopo il congedo dai Carabinieri reali anche un’altra medaglia,  quella destinata ‘ Ai benemeriti della salute pubblica’ che gli venne assegnata come guardia municipale del comune di  Talamello per l’epidemia collerica del 1886. La medaglia di bronzo gli venne conferita nel 1888 con questa motivazione: “Prestò indefesso servizio, accorrendo ovunque a provvedere per le disinfestazioni e a prestare mano per la tumulazioni dei cadaveri”.
Pietro Giovanni   venne dunque ‘trasferito’ in Valmarecchia in qualità di carabiniere. Danilo Re, l’unico che lo cita,  sostiene inoltre che “Pietro, nel 1872, ebbe parte non secondaria  nella cattura del bandito Martignon di Perticara”. Le modalità della sua partecipazione alla cattura del pericoloso malvivente non sono state mai del tutto vagliate. Anche perché non si è mai esattamente documentato se, in quegli anni, fosse ( ancora) al servizio dell’arma dei  carabinieri o ( già) della polizia municipale del comune di  Talamello.

L’attività del bandito perticarese e della sua   combriccola erano visti comunque come segnali di diffuso e intollerabile  malessere sociale. Che andavano risolti, soprattutto per (re)imporre sicurezza e legalità.

 Martino Manzi detto anche ‘Martignon’, 37 anni alla morte,  assassino e latitante, era allora una vera e propria ‘leggenda nera’ di Vallata. Su di lui nel tempo sono stati pubblicati diversi  testi e non sempre di condanna.

Del resto le ‘leggende’, anche quelle più tristi, quando affiorano in contesti sociali controversi, finiscono col partorire più versioni con  tanto di detrattori e di sostenitori. Nulla di strano. Sta nell’ordine delle cose. E tuttavia,  due sono le versioni che meritano d’essere ascoltate.

La prima,  ufficiale,  che spiega i fatti in questo modo:  “Furono otto suoi camerati a farlo fuori, in una umida e buia notte tra il 18 e 19 novembre 1872, sulla strada sterrata che dalla Serra di Tornano conduceva a Pedimonte e, di qui, abbastanza rapidamente, alla Perticara. Martino non morì  subito – integra il racconto -,  anzi, pur ferito in più parti, ebbe tempo e modo di ‘salutare’ con una smorfia di dolore mista a sarcasmo  i carabinieri che, avvertiti da qualche ignoto, lo raccolsero morente sul ciglio della strada alle prime luci dell’alba per trasportarlo, in rigoroso incognito onde evitare la Perticara ‘dove si potevano incontrare difficili situazioni’, dapprima a Serra Masini e, poi, una volta spirato, presso il ponte delle Avellane verso il Bornotto, nella chiesa della Perticara.  E fu allora, in quella circostanza, che  il temibile ‘Martignon’,  espletati gli accertamenti di legge, potè essere seppellito ‘in un angolo ( riposto) del vecchio cimitero, nei pressi dell’edificio sacro’”.
La seconda versione, antagonista alla prima, è  rimasta del tutto orale, anzi privata, e quindi completamente da verificare. Questa  versione la  (ri)proponeva  Eolo  nei lunghi pomeriggi di sosta invernale,  davanti al piccolo caminetto, mentre il chiarore del giorno digradava sui cumuli di neve che si vedevano attraverso la finestra della cucina affacciata sul ‘Gioco’.

Eolo, ribadiva  quanto aveva appreso fin da piccolo della partecipazione del padre alla cattura del pericoloso fuorilegge. Nella sua versione,  non si sa bene come e quando, e a quale titolo, il padre fosse riuscito ad infiltrarsi all’interno della ‘pericolosa combriccola’ di Martignon, prendendo utili informazioni e ( abilmente ) fagocitando il tradimento dei compagni oramai stanchi dell’incomoda  presenza d’un pluriricercato qual era ormai  il bandito  di Casalecchio di Sopra, qualche settimana prima della cattura, aveva ardito uccidere in un feroce agguato ben tre militari dell’Arma della stazione di Sant’Agata Feltria.
La fine di Martignon  ( nella versione di  Eolo)  risultava  più cruenta e movimentata  di quella ufficiale. Il bandito, infatti, colpito più volte dai carabinieri resistette fino all’incredibile, per una notte intera, “otturandosi ogni volta i fori prodotti dalle schioppettate con della stoppa subito impregnata di sangue”. Poi il cadavere fu fatto sparire, per un po’, fino a sepoltura avvenuta. In quale luogo, e in quale ora e giorno, non si seppe mai.  Favorendo  da allora innumerevoli versioni. Storie, o verosimili o fantasiose o  false che fossero, ovviamente,  e ancor oggi  impermeabili a ravvedimenti e correzioni. Storie che per la loro intrinseca natura hanno finito  col dare maggiore popolarità più a  coloro che  ‘ si muovevano nella sfera del crimine’ , piuttosto che a coloro che ‘ sentivano di dare, senza compenso alcuno,  un loro contributo alla rinascenza politica, morale e sociale del Paese’.
Con riservato senso ‘ dell’onore’ o più semplicemente ‘del dovere’;  evitando estemporanee vanterie, e con un ininterrotto e motivato riserbo,  come nell’esempio di Pietro ( Secondo) Giovanni, ancor oggi misconosciuto o quasi,  se si fa l’eccezione  per quei pochissimi che gli sono vissuti attorno. E che lo ripagarono, comunque, fin a molti decenni dopo la scomparsa, con l’ammirazione e l’affetto loro.

 

 UN GIORNO INDIMENTICABILE.

Eolo mai riuscì a farsi raccontare dal padre i particolari del ‘gesto’  per il quale gli venne riconosciuto, a Castelfidardo, l’alto riconoscimento al valore militare. Il genitore, infatti, amava restare sempre  nel vago. Quasi volesse schernirsi per un doloroso e controverso giorno di gloria di cui s’erano resi protagonisti ( in particolare) lui e il  X Reggimento della brigata Regina. Dello scontro di Castelfidardo, finito sui libri di scuola, oggi, si conoscono molti particolari; e in particolare  quelli che hanno riguardato il comportamento del reparto in cui ha militato  Pietro Giovanni.
Quando non c’erano ancora i social, ma solo il cinema, la radio e qualche televisore in bianco e nero, figure come quella di  Pietro Giovanni erano punti di riferimento naturali. Immaginati. Desiderati. Imitati. Bastava allora la sgranata posa in bianco e nero, con quel suo faccione bonario reso più severo da due baffi scuri ricurvi, per alimentare l’immaginazione d’ ascoltarlo nel suo ‘ palpito vitale’.  Con la sua voce. I suoi gesti. Lasciando ( solo) a lui esporre ( senza intermediari) l’esauriente racconto di una giornata memorabile.

Il racconto di Pietro ( Secondo) Giovanni. “ La nostra Brigata  –  scandiva ( l’interlocutore) con tono stentoreo e dal chiaro accento vercellese -  attingeva le sue origini dal battaglione Regina ( costituito nel 1734), il quale,  nel 1839, aveva assunto la denominazione di brigata Regina annettendo i reggimenti di fanteria IX e X. La  Brigata in quegli anni prese parte a tutte le campagne di guerra. Durante la campagna del 1860, agli ordini del generale Avenati, combattè sotto la IV divisione ( Villamarina) a Pesaro, Castelfidardo, Ancona, Macerone, Gaeta e Messina. Ho ancora ben presenti le due vistose mostrine bianche che caratterizzavano la divisa.

Nel settembre del ‘60 il generale Cialdini, che comandava il  IV Corpo d’armata piemontese,  invase lo Stato pontificio. Il 12 settembre, in particolare,  rammento che arrivammo molto rapidamente  a Pesaro e Fano; il 13 eravamo a Senigallia; il 14, avvisati dell’arrivo del francese Lamoriciere, ci ‘disperdemmo’  sulle alture tra  Osimo e Castelfidardo. In faccia a noi  si appostò il generale transalpino che comandava l’armata del Papa. Alle ore 8,30, del giorno18, i Pontifici presero ad avanzare contro di noi su due colonne, cercando i guadi. Una colonna del generale Pimodan forte di tre battaglioni  aprì il fuoco d’artiglieria sul 26° Bersaglieri e sul XII Fanteria, dislocati  fra l’estrema punta del contrafforte di Castelfidardo e il piano fra i fiumi Apio e Musone.

I nostri riuscirono a resistere per una mezz’ora circa, poi, sopraffatti  dalle quadruple forze del generale Pimodan, a corto di munizioni, indietreggiarono ricompattandosi  solo sul ciglione del monte Oro. Che i Pontifici , però, aggredirono in un batter di ciglia. Fu in quei delicati momenti che arrivammo noi, del X Fanteria, provenienti da Crocette, dove eravamo in sosta unitamente alla riserva della brigata Regina. Ho ancora nelle orecchie le grida del comandante Bossolo che ci ordinava di assediare la cascina Serenella.

Ricordo  che, nell’assalto,  avanzammo gridando  con quanto più fiato riuscimmo a trovare in corpo: ‘ Viva il Re! Viva il Re!’. I nemici,  che s’erano riparati dietro il fabbricato, opposero  una dura resistenza. Tuttavia noi non ci tirammo indietro. Anzi, qualcuno, per creare una copertura ai fanti,  diede fuoco ai pagliai disseminati attorno alla cascina. Nell’aria  si sparsero pungenti folate di fumo. La confusione divenne indescrivibile. Io stesso stentai a rapportarmi con i miei compagni.  Lo scontro fu molto cruento. Vidi molti dei nostri cadere. Compreso il portabandiera.
Un biondino sui vent’anni, che s’accasciò a terra ad una decina di metri da me. L’istinto mi disse di correre verso quel ragazzo, intanto per constatare la sua condizione; ma visto che non rispondeva più alle mie sollecitazioni, non avvertii altro che l’impulso di  raccogliere la bandiera da terra e sollevarla al cielo. Al suo posto, ovviamente, incitando gli altri . Il gesto fu notato dai compagni. Che reagirono. Compatti. Tanto che alla fine  del massacro il X Fanteria ebbe la meglio sugli altri.
Per un attimo, ho fatto tempo anche ad intravvedere il generale nemico, Pimodan, probabilmente ferito,  inseguito dai nostri giù per la collina. Ci mettemmo di nuovo a gridare. Non ricordo verso di chi e che cosa. Impauriti. Preoccupati.  Pregando. Dando inoltre voce ai sopravvissuti con ripetuti richiami.
Tanti, troppi di noi, giacevano infatti sul campo di battaglia. In quella giornata il (nostro ) X Fanteria perse  i bravi capitani Cugia e Scorticato,  e così anche il valoroso tenente Volpini e altri 55 miei compagni. Con molti dei quali ero entrato in amichevole confidenza. Di loro mi salivano alla mente  soprattutto le persone. Genitori,  mogli e fidanzate, figli e fratelli. I quali, una volta recuperate le salme, li avrebbero rivisti tornare a casa avvolti in una bara tricolore.

In quel giorno, oltre ai morti,   restarono feriti dieci ufficiali e 130 soldati. Molti anche in maniera grave e permanente. Il Ministero della Guerra, per quello che riuscimmo a fare a Castelfidardo, concesse al X Fanteria la medaglia d’oro al valore militare. E a me, per quella bandiera alzata al cielo, la medaglia d’argento. Che ogni tanto, è vero, sono costretto ad appuntarmi  al petto.  Ma solo nella speranza di riuscire a non fare dimenticare la memoria di quei miei valorosi coetanei. Che solo il Signore Iddio sa quanto mi manchino”.

La bandiera del gesto eroico, non si sa come, Pietro Giovanni, riuscì a portarsela a casa. La conservò fin all’ultimo respiro, come la santa icona d’un giorno indimenticabile,  rimasto nella sua memoria più col suo carico di dolore che di gloria. In un misto di valutazioni e sentimenti contrastanti che solo chi ha conosciuto l’impietosa crudeltà della guerra, probabilmente, potrà capire fino in fondo. Poco o nulla  infatti suggeriva allo schivo Pietro Giovanni il risultato militare ottenuto in  quello storico scontro in terra marchigiana,
E che, secondo i libri di storia, della grande storia,  sia pure non eclatante come altri di quel periodo, facilitò   “ la caduta di Ancona per aprire (definitivamente ) al re del Piemonte e a Camillo Benso conte di Cavour le porte del Mezzogiorno e, quindi, dell’Unità d’Italia”.

 

 

Roberto Vannoni

 

Nella immagine, le quattro medaglie di Pietro Giovanni (Secondo) Re.

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