Romagna. Gli eroi da non dimenticare. La vicenda del professor Rino Molari, fucilato a Fossoli.

Romagna. Gli eroi da non dimenticare. La vicenda del professor  Rino Molari, fucilato a Fossoli.
Il sindaco Alice Parma e Pier_Gabriele Molari a Fossoli 9.7.17 (foto Anpi provinciale Rimini)

SANTARCANGELO DI ROMAGNA. Del ‘manipolo’ di antifascisti scelti dagli amministratori clementini per ‘celebrare’ anche attraverso i muri delle case i valori della democrazia e della libertà riconquistate non resta che Rino Molari, l’unico di nascita santarcangiolese tra quelli prescelti.
A lui, l’Amministrazione dedicò una via ‘breve’, ma di ‘grande snodo’, perché fondamentale nel collegare piazza Ganganelli con il Combarbio sul quale convergono da direzioni diverse via don Minzoni, via Cavour, via Matteotti e  ( la scenografica)  via della Scalinata.  Un tratto centrale, dunque,  com’è centrale la figura del Professore nel contesto politico-ideologicoculturale-umano dell’antifascismo cittadino e romagnolo.
Rino Molari nasce il 9 maggio del 1911, presso l’antica Pieve di Santarcangelo. Un tempio dove la non casuale stratificazione  delle  pietre racconta di transiti storici fin dalle epoche più remote; e dove i contorti pini ad alto fusto che la proteggono,  a ridosso del mese di maggio, si affollano di nidi e canti d’uccelli.
I  genitori, Maria Tito e Cecilia Ricci, custodi della Pieve, sono dediti al lavoro dei campi. A lui, terzo ed ultimo maschio, essi assegnano  il nome del nonno paterno. Dall’ ambiente di famiglia – che aveva coltivato anche una radice ‘sovversiva’ nel nonno paterno, carbonaro ed  esule a Londra per decenni -   Rino Molari respira i valori del lavoro e  di un impegno civile che non cerca indulgimenti verso le forme di ‘trasformismo’  politico. Qualcosa di molto chiaro, insomma, e di molto ispirato. Atteggiamenti, questi, condivisi e chiaramente emersi in lui già da adolescente, e concretamente dal momento in cui le  squadre fasciste prendono a spadroneggiare senza riguardo alcuno in paese e nel territorio.

Dopo avere frequentato le elementari a Santarcangelo con il maestro De Girolami, Rino prosegue gli studi presso il seminario vescovile di Rimini dove, nell’autunno del 1923, inizia il ginnasio; passando, poi, alla fine del 1928, al seminario regionale di Bologna, dove frequenta il liceo ed inizia i corsi di Teologia. Rino vorrebbe  trasferirsi alla ‘Gregoriana’, ma per la famiglia l’onere economico è eccessivo per cui  deve rassegnarsi di  restare a Bologna.

Nel 1933, al secondo anno, esce dal seminario e si iscrive alla facoltà di Lettere dell’ateneo bolognese dove (ri)trova cari compagni, alcuni dei quali (il futuro senatore Gino Zannini e il professor Carlo Bizzochi ) ‘fuorusciti’ quanto lui dal seminario.  Rino inizia a frequentare, inoltre, i circoli dell’Azione Cattolica e della Fuci.

Nel 1936/1937 si laurea (aiutato dal Bizzochi visto che ‘ essendo lui un po’stonato, necessitava di un qualche aiuto a cogliere la differenza di certi dittonghi’ ) in Glottologia, con la tesi ‘I dialetti di Santarcangelo e della vallata del Marecchia a monte di Sant’Arcangelo, oggi depositata presso la Biblioteca comunale. Insomma: è una gioventù, la sua, tutta studio, scuola ( nel 1942 ottiene dapprima la cattedra alla Magistrale di Nuoro eppoi un incarico alle Medie di Riccione), esperienze religiose e  sociali, intercalata dall’hobby  per la caccia, ereditata dal padre.
Fra il ’41 e il ’42, pur esonerato dal servizio militare per problemi alla vista, è chiamato alle armi e assegnato ai servizi sanitari presso l’ospedale militare dell’Abbadia di Bologna. Il lunedì di Pasqua del 1942, durante una licenza dal servizio, sposa  Eva Manenti, conosciuta a Novafeltria, insegnante elementare e figlia del tecnico comunale.

Il 7 marzo del 1943 nasce  Gabriele, così chiamato in omaggio al suo ‘maestro’ d’università, il professor Gabriele Goidanich. Ma è da questo periodo in avanti che la sua vita, al pari di quella di milioni di Italiani, viene stravolta da vicende storiche e sociali di eccezionale portata. Dopo l’8 settembre 1943, mentre l’esercito si dissolve e si organizza la Resistenza o Guerra partigiana,  nel Nord Italia s’insedia la Repubblica sociale italiana; mentre un po’ dovunque, e anche in Romagna, cominciano a manifestarsi moti   popolari contro il regime fascista. In questa fase si riorganizzano anche i partiti. Sullo sfondo della guerra civile.

 Molari completa in quel tempo la sua ‘vocazione politica’  e aderisce alla Democrazia cristiana. Ottiene un incarico scolastico a Riccione, dove soggiorna presso la pensione Alba.

Qui ‘ entra in contatto’ con  la Resistenza della Valconca  che gli consente di conoscere ( tra gli altri )  l’ex segretario del Partito Popolare Giuseppe Babbi monsignor Giovanni Montali, nativo di Santarcangelo ma riccionese di apostolato,  sacerdote di grande spessore e ( per molti aspetti )  seguace dello ‘scomodo’  don Romolo Murri,  uno dei padri della  della Democrazia cristianaMolari stabilisce,  in quegli anni, un solido legame anche con monsignor Montali, ‘ tra i maggiori rappresentanti di quella corrente innovatrice che aveva attraversato il clero romagnolo agli inizi del Novecento’.

Il Professore clementino è straordinariamente aperto al confronto con esponenti d’altre culture, o appartenenze politiche, come Gianni Quondamatteo ( col quale condivide unitamente a monsignor Montali la passione per il dialetto e la caccia), sempre alla ricerca di punti d’incontro  ideologici e politici per far fronte comune alla drammaticità del momento. Nel frattempo i tedeschi,  per puntellare la Repubblica sociale, e non perdere il controllo della Penisola,  scendono in forze dai valichi alpini.

Sono questi i giorni convulsi, incerti,  che trasformano in anticamera del martirio la sorte del professor Molari. Il quale, continua a dar corso ai contatti con gli antifascisti locali. In solitaria, poi, solitamente in bici e talvolta  travestito da prete, inizia a distribuire materiale di  stampa clandestino. Il suo impegno è decisivo nella fondazione di  alcuni CLN a SantarcangeloComuni limitrofi; anche per dare rifugio a ricercati politici e razziali. Il Professore, nel frattempo, ha allacciato forti contatti con il colonnello Tolloy, forlivese, e  con le formazioni partigiane di montagna, al punto da venire poi indicato quale ‘ membro non combattente’ della VIII  Brigata Garibaldi.  Tramite i canali clandestini verrà a conoscenza dell’eccidio di Fragheto

Il suo attivismo   comincia ad essere notato dalla Pubblica sicurezza fascista. All’amico Americo Matassoni infatti confida di ‘sentirsi in pericolo’ e di ‘ essere spesso seguito da sconosciuti’.
Matassoni il giorno prima dell’arresto gli offre di restare nella sua casa, a Savignano; ma Rino non lo ascolta e,  poco prima della mezzanotte, inforca la bici e “attraversando da solo orti e giardini”  raggiunge infine la casa dei genitori, a Santarcangelo”. Sono queste le sue ultime ore di libertà. Perché, dal quel momento in avanti, scattano  in rapida successione  l’arresto ( a Riccione), la detenzione e ( si dice) perfino la tortura. Ma il Professore  non ‘parla’, non ‘tradisce’  amici ed organizzazioni. Al punto che la rabbia degli antagonisti si trasforma in mirata violenza.
Negli stessi giorni  i nazifascisti completano una pesante offensiva in montagna contro l’VIII Garibaldi, con l’integrazione di vaste retate in pianura. Raccontano che, prima dell’arresto, Molari fosse riuscito a consegnare  all’amico Alfonso Giorgetti ( rappresentante Dc nel CLN di Santarcangelo) qualche pacco di volantini, consegnati, poi, almeno  in parte,  anche a Tonino Guerra; dicono altresì che ad avere reso possibile  arresto ci sia stata la ‘soffiata’ di un collaborazionista ( di cui Rino ha avuto la sventura di fidarsi) arruolato nella milizia repubblichina e noto con il nome di capitano Rossi.  Subito dopo l’arresto il Professore è detenuto per una notte intera nella caserma di Santarcangelo. Successivamente viene trasferito a San Giovanni in Monte, a Bologna, il famigerato carcere gestito dalle SS.

L’arresto di Rino lascia molti nello stupore, padre compreso, che nulla aveva mai sospettato della sua attività clandestina. La moglie Eva, anche lei all’oscuro dei suoi impegni, va a trovarlo in carcere.

Lui la rasserena dicendole “di stare tranquilla, perché non ha commesso nulla di grave”. Alcuni tentativi da parte partigiana, tra maggio e giugno del 1944, per ‘strapparlo’ al carcere, vanno  a vuoto. Da Bologna Molari viene trasferito a Fossoli.
La sera dell’ 11 luglio un gruppo di 71 internati viene alloggiato nella baracca numero 11. All’alba del giorno seguente, dopo essere stati invitati a scrivere lettere ai famigliari, i reclusi vengono fatti salire su degli autocarri. Che invece di dirigersi a Verona ripiegano verso Carpi. Sono tre/quattro chilometri appena, dopodichè,  i camion si arrestano in un luogo abbastanza vicino all’abitato di  Fossoli (1). I 71 detenuti vengono fatti entrare all’interno d’un cadente edificio isolato, il vecchio tiro a segno di Cibeno, dove li attende una fossa lunga e stretta scavata di fresco.

L’interprete del Campo  completa la ‘farsa’ leggendo la condanna a morte per rappresaglia e, alle cinque, i prigionieri vengono tutti passati per le armi (2). Qualcuno si dice in coppia, molti altri con raffiche di mitra e colpi alla nuca (3). Solo il 17/18 maggio del 1945 le salme vengono riesumate per il riconoscimento. I resti risultano affastellati, l’uno sopra all’altro, con qualche spalettata di terra a copertura per ogni strato di cadaveri.

Al professor Molari  tocca d’essere riconosciuto dalla moglie Eva e dal fratello Attilio grazie ad una maglia, un orologio, alcune banconote e, in maniera inequivocabile,  da una foto del piccolo Gabriele. Di questi intrecci familiari cresciuti all’interno della grande storia, Gabriele, probabilmente, è venuto a conoscenza soltanto molti anni dopo. In età matura. Facile  è  comunque immaginare che li abbia valutati affranto, bagnando di lacrime l’abituale sguardo chiaro e fermo, straordinariamente ‘simile’ a quello del padre. Privo d’ombre. Trasparente. Luminoso. E capace di alimentare, una volta conosciute la sua, le loro storie,  la più convinta, profonda e sincera avversione contro ogni  forma di  ‘prevaricazione’, ‘ingiustizia’ e  ‘barbaria’  umana.

( Roberto Vannoni)

  • Integrazione al testo dal libro: Per non dimenticare Rino Molari’ di Luciano Casali e Pier Gabriele Molari, ed. Anpi, settembre 2017

 

 

*NOTA (1). “ Il Campo modenese di Fossoli, controllato da nove torrette con mitragliatrici, era recintato da una doppia rete di filo spinato alta più di due metri; il largo fossato d’acqua ( su tre lati) e l’illuminazione notturna con potenti riflettori consentivano un numero relativamente esiguo di guardiani di tenere in cattività diverse centinaia di persone, sconsigliando colpi di mano… Numerose mansioni amministrative ed economiche erano gestite direttamente dagli internati: dalla sanità all’ufficio spedizioni, dalla falegnameria alla tipografia, dalla sartoria alla mensa … La sistemazione delle baracche – secondo l’estrazione geografica o l’orientamento politico – permetteva rapporti interpersonali senza l’assillo dei tedeschi, i quali consentivano la nomina di un capo baracca … il solo ‘ Campo nuovo’ aveva una capienza di 2.240 posti letto nella sezione degli internati politici e 2.048 in quella riservata agli ebrei …”.

 

NOTA (2). “ … Tornando a Fossoli. Il resto di ciò che accadde è noto: all’appello delle 19, i 71 reclusi furono chiamati, stranamente, leggendo i nominativi in ordine alfabetico e non attraverso i numeri di matricola, com’era tradizione ( in effetti la lista compilata a Verona dal comando tedesco era accuratamente nominativa). Così la sera dell’11 luglio coloro che erano stati selezionati furono rinchiusi in una baracca, lontani dagli altri detenuti, e furono invitati a portare con sé i propri affetti personali, perché, si disse loro, dovevano partire ‘ per il Nord’. Molti intuirono quale sorte sarebbe stata loro riservata, anche se la maggior parte manifestava incredulità per una esecuzione di massa per la quale non si riusciva a comprenderne la motivazione. Bernardo Carenini fu avvertito  dal maresciallo Haage  di non uscire con i suoi compagni alla mattina successiva; Teresio Olivelli riuscì invece a nascondersi e a rimanere nascosto – protetto dagli altri politici del Campo – fino ai primi di agosto. Quando il Campo si svuotò, fu ritrovato ( forse per una delazione) pestato a sangue, e venne prima trasferito a Bolzano poi a Flossenburg e  infine a Hersbruck, dove sarebbe morto il 12 gennaio 1945.

Alle ore 4 del 12 luglio – nel frattempo otto ebrei ( per sei dei quali sono stati poi individuati i nominativi) avevano scavato al poligono di tiro di Cibeno, a tre chilometri dal Campo, un’ampia fossa comune -  fu caricato il primo  scaglione di 25 persone, presumibilmente in ordine alfabetico, e, su un camion, avvenne il loro trasferimento sul luogo dell’esecuzione.
L’interprete del Campo, Karl Gutweniger, lesse in pessimo italiano a costoro, e quindi ad ogni gruppo successivo, la sentenza di morte con l’affermazione che essa avveniva in conseguenza e come rappresaglia per le uccisioni gappiste di Genova

Quando gli uomini del secondo gruppo – ascoltata la ‘sentenza’ – capirono che sarebbero stati uccisi, alcuni di loro, disperatamente, assalirono le SS e anche lo stesso tenente Karl Titho, comandante del Campo, che assisteva alle esecuzioni. Due di loro riuscirono a fuggire: Mario Fasoli e Eugenio Jemina. Aiutati dai contadini della zona, il primo si unì ai partigiani locali e assunse quale nome di battaglia ‘ Il morto’; il secondo restò nascosto fin alla Liberazione, prima a Milano, poi a Torino.
Le esecuzioni dei  rimanenti del secondo gruppo avvenne in maniera caotica, a raffiche di mitra o con colpi singoli, poi, anche costoro vennero gettati nella fossa comune.
Il terzo gruppo fu accompagnato al poligono ammanettato ( fra costoro figurava anche Rino Molari), a fronte di una situazione ormai piuttosto confusa dopo la ribellione; i tedeschi avevano quindi fretta di concludere l’operazione e per questo non s’accorsero, tra l’altro,  della mancanza di Olivelli.

Anche i componenti del terzo gruppo furono uccisi con un colpo alla testa, dopo avere sostato dietro il terrapieno del poligono: quelli che erano nell’ attesa sentivano i colpi e si rendevano conto, caso mai fosse rimasto loro qualche dubbio, del destino che li attendeva di lì a poco. Aspettando il momento,  c’era chi pregava, chi fumava … Al termine del tutto furono richiamati gli otto ebrei,  i quali – dopo che le SS o gli stessi ebrei avevano sparso calce viva sui cadaveri – provvidero a ricoprire molto accuratamente la fossa comune in modo che non restasse alcuna traccia visibile dell’eccidio. Il Poligono andava infatti restituito alla ‘normalità’ e senza che  nessuno mai avesse  a sapere quanto era accaduto…”.

 

* NOTA(3). “ Ad innescare la ribellione fu Mario Fasoli che, spalleggiato da altri prigionieri, s’avvinghiò sull’orlo della fossa ai carnefici e con la forza della disperazione – seguito da Jemina – fuggì oltre la cinta del Campo, tra una gragnuola di colpi esplosi dai guardiani, rimessisi dalla sorpresa ma in difficoltà nel reprimere la rivolta. Altri tentarono di seguirli, ma il fuoco dei tedeschi li freddò…“. ( Mimmo Franzinelli)

Il 12 luglio furono i militi fascisti, armati di mitra, ad accompagnare i reclusi fino al camion dove vennero consegnati alle SS per essere trasportati a Cibeno.

 

 

 

 

 

         

 

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