Santarcangelo d/R. San Michele in Acerboli: continui prodigi di luce, intense affinità dello spirito.

SANTARCANGELO di ROMAGNA . E’ solo dopo il primaverile ‘ritorno’ di San Benedetto, che le brune chiome dei tronchi di pino alti e sofferenti che schermano la Pieve di San Michele in Acerboli si riempiono degli ‘stridii’ di rondine.
In vero calanti in questi ultimi anni, eppure sempre ‘garrule’ e ‘festose’, soprattutto al tramonto del sole estivo su quella ‘ lunga linea blu’ che, qualche chilometro più avanti, separa terra e cielo. E’, questo, uno di quegli inesauribili momenti di fascino che emana questo singolare tempio sacro dedicato all’angelo guerriero, che ha finito col ‘dare’ il suo nome al centro abitato lievitato attorno.
La Pieve di San Michele Arcangelo resta nel suo insieme un rebus, forse un tantino più intricato d’altri, per ‘questioni non soltanto storiografiche ancora sospese’ e legate alla sua ‘peculiarità’. Meglio spiegarsi. Negli anni, allo studio della Pieve, si sono dedicati eminenti studiosi: Gerla, Verzone, Mazzotti, la Bull Simonsen, Franceschini, Bettini, Perogalli, Curradi e, in particolare, Eugenio Russo.
Da quest’ultimo, già nell’83, arrivarono ‘dritte’ che circoscritte nelle mani di pochi hanno finito con l’essere dimenticate, o quasi. Capita.
Ed è per dare il giusto valore che meritano che sarà utile tornare sul prezioso contributo del prof. Russo, che risolse il ‘rebus’ Pieve collocandolo nell’ambito dell’architettura bizantino-ravennate e ‘alla sua sfera di prototipi e di centri d’influenza ed espansione’. Sciogliendo così definitivamente l’annoso dilemma sull’origine del manufatto.
“ Credo ci siano validi motivi – assicurò – per far risalire San Michele in Acerboli agli anni immediatamente successivi alla metà del VI secolo, praticamente in età giustinianea, e dunque all’epoca dell’arcivescovo Agnello ( 556/569) o, se così non fosse, a qualche anno antecedente l’episcopato dell’Agnello, visto che da un raffronto strutturale e sulla tecnica muraria con le chiese ravennati appare anteriore a quella parte di S.Agata ricostruita al tempo di Giustiniano”.
Alla seconda metà del VI secolo va fatta risalire anche la dedica a San Michele Arcangelo, un culto diffuso in Occidente dai Bizantini.
Chi sosta alla Pieve non può non chiedersi se sia rimasta intatta nel tempo. No, senz’altro, anche perché di ‘ manipolazioni’ ne ha subite tante. Troppe. Alcune a sproposito. In particolare, nel corso del Novecento.
Su questo versante il prof. Russo fornisce un contributo ragguardevole. “ Osservando un ‘disegno’ alla Sopraintendenza di Ravenna – spiega – , firmato Corsini e datato 1911, dunque un anno prima dei lavori di consolidamento del 1912, siamo venuti a conoscenza della fronte e del fianco sinistro dell’edificio.
La fronte appare quasi completamente nascosta da due ‘casette’ appoggiate ai lati del campanile e alla facciata. Sul fianco sinistro, al centro in basso, si nota inoltre l’apertura di una porta moderna con arco a tutto sesto, in seguito murata, mentre delle otto finestre superiori di forma rettangolare soltanto tre risultano ( tuttora) aperte, e in linea con le originarie a tutto sesto”.
Un secondo ‘disegno’ dell’ ottobre 1911, sempre a firma Corsini, suggerisce invece quali fossero le priorità dei restauratori novecenteschi, preoccupati di avere tra le mani una struttura ampiamente manomessa e decadente.
Di certo, avrebbero voluto abbattere la casupola alla sinistra del campanile e riaprire le otto finestre antiche. Obiettivi non raggiunti, perché alla fine dell’intervento ci si limitò ad eliminare la porta al centro del fianco e la casupola a ridosso al campanile, tralasciando le otto finestre ad eccezione della settima.
Altri significativi interventi vennero eseguiti nel 1922 ( con ‘ muratura’ delle due aperture rettangolari della seconda e quarta finestra antica e ‘apertura’ della prima e terza, tuttora occluse) e nel 1966/1968.
Quest’ultimo ‘sforzo’ conservativo consentì, tra l’altro, di “risarcire i guasti alle murature, ripristinare la quota primitiva all’interno e riaprire tutte le finestre sui due fianchi e le tre originali dell’abside”.
In buona sostanza, fu possibile riconsegnare la grande aula al culto abituale, pagando però un prezzo piuttosto elevato visto che andò perduta “ ogni traccia che fosse posteriore all’epoca della Pieve, mentre si sarebbe dovuto studiare un sistema – rimproverò il prof. Russo - di tutela e salvaguardia della zona archeologica, mantenendo la quota pavimentale risalente all’epoca di costruzione della cripta”. Tant’altro resta da dire. Di occasioni la Pieve ne offre a bizzeffe. Affascinanti e sorprendenti.
Ad esempio, la ‘ somiglianza’ dal punto di vista murario con diversi prestigiosi luoghi di culto ravennati dello stesso periodo: San Michele in Africisco ( 545), San Vitale ( 547), Sant’Apollinare in Classe ( 549) e la parte absidale di Sant’Agata.
Evidente è anche una certa ‘ analogia costruttiva’ con la pieve di San Martino in Barisano, nel Forlivese, tramite la quale è possibile farsi un’idea dei mosaici pavimentali santarcangiolesi, oramai tanto ‘deteriorati’ da non potersi più ‘ricostruire’.
Inoltre c’è uno ‘scorcio’ di Pieve che alimenta più d’altri ‘ dubbi’ e ‘contenziosi’. Si tratta dello spazio absidale.
“Eccessivamente ampio – sottolineò il prof. Russo – e comunque tale da far nascere il ‘sospetto’ che “ sia stato ricalcato su un precedente edificio di culto, inglobato nella nuova costruzione a cominciare dalla parte inferiore”. L’attuale ‘semicalotta’ che potrebbe risalire all’epoca di Paolo VI ( 1605/1621) suscita la domanda: e se si trovassero qui, in questa sconosciuta parte della chiesa, i‘ resti’ del mitico tempio pagano?
Luigi Renato Pedretti non avrebbe dubbi in proposito. “ Il pavimento verso l’abside, rimbomba … testimoniando così – sostiene – la presenza di un sottostante ambiente non scavato, ma che potrebbe essere stato quello riservato al minuscolo tempio dedicato al dio Mitra… Divinità portata da Oriente e che qui ‘si ritrova’ nei più leggeri particolari. Anche se poi sepolta dal successivo adattamento spirituale, come sempre indispensabile, per affrontare la vita nell’attesa della morte”.
Squadrando la Pieve dall’esterno non si può non notare la facciata realizzata obliquamente, o meglio, ‘con taglio sbilenco da sinistra verso destra’. Casualità ? Trascuratezza? Errori di calcolo? Carenze strutturali e costruttive? Nulla di tutto questo, perchè quanto ‘costruito’ dall’ignoto architetto chiamato in Romagna dalla lontana Costantinopoli, non lascia adito all’improvvisazione. In tal senso le prove non mancano. A cominciare da quegli inesauribili giochi di luce esterno/interno che alimentano un fascino senza tempo. Soprattutto sulle coppie di giovani sposi. La ‘forzatura’ d’una facciata obliqua per uno spazio limitato a navata unica è operazione voluta e geniale. Frutto d’una straordinaria cultura dello spazio.
Intanto evitando al fedele di rendersi conto dell’accorgimento, e a partire dall’esterno lasciando libero gioco alla luce’ nell’inventare rilievi alle fiancate e all’ abside, con intenti non solo decorativi. Ma il risultato più sorprendente arriva dalla conformazione e disposizione delle finestre. Che l’architetto collocò in alto. A due a due tra le lesene, accoppiate e accostate alla lesena interna dei due settori estremi della parete, ricorrendo a differenti criteri sui due fianchi.
Quest’attenta opera di finestrato, probabilmente sul modello della chiesa di San Giovanni di Studios, tra le più note della capitale dell’Impero romano d’Oriente, consente alla luce di alimentare all’interno un’atmosfera altrove sconosciuta.
Che ben ‘cattura’ il ‘piano del fedele’ e la parete di fondo, “mentre ulteriori sottili sfumature di luce e penombra contraddistinguono l’abside, in cui spiccano le due coperture centrali”. Sull’abside infatti il costruttore greco concentrò “ il punto di più raffinata modulazione della luce”.
Con soluzioni intense. D’intimo dialogo con l’Eterno. Tanto che perfino al prof. Russo diventò difficile trattenere una commossa valutazione.
“ Le finestre dell’aula – confessò l’eminente studioso – con il loro gioco incrociato di luci rischiarano molto bene anche la parete absidale più vicina alla parete di fondo, coi muri paralleli, pure in alto, mentre una leggera penombra comincia ad avvolgere la parete là dove essa s’incurva, tanto in alto, nel catino, quanto e più nettamente in basso, dov’è stata adoperata l’abside più antica, mentre al centro tal effetto è vivacemente spezzato dalla luce concentrata delle tre finestre mediane”.
Prodigi di luce, affinità dello spirito. Fuori e dentro questo millenario manufatto, manomesso più volte e più volte sopravvissuto, e dovuto all’ingegno d’uno sconosciuto costruttore greco per diffondere anche in Romagna il nuovo verbo cristiano.
E con quale futuro? Inserendolo d’ora in avanti in una sorta di parco archeologico per aggiungere un altro gioiello alla città? Il discorso è aperto. La facciata dell’antica Pieve è oggi ( parzialmente) ‘protetta’ da una torre campanaria postuma, rimediata con materiale d’epoche diverse e tuttora dalla problematica staticità. Si potrebbe abbattere, per evitare sorprese, rischiando però il crollo della facciata stessa, segnata ormai da mille crepe. Quindi cautela.
Eppoi, che senso avrebbe disperdere quei ‘sassolini’ sistemati lungo quel ‘corpaccione’ di pietra e mattoni da un innominato Pollicino? E che, a ben leggerli, con quelle tinte d’età diverse, scandiscono ad ogni colpo d’occhio ‘tracce’ non trascurabili lasciate da Goti, Longobardi, Franchi, Bizantini e altri ancora. Un notevole passato, il nostro passato.
Roberto Vannoni
Nella foto, esterno della Pieve